Questo brano costituisce il primo capitolo del romanzo: Amori, Passioni e Briganti, di Simona Aiuti Il testo è “Proprietà letteraria riservata” dell’Autore. La pubblicazione di parte di esso su questo sito è stata effettuata con il permesso dell’Autore, che ne ha inviato una copia in formato editabile all’amministratore del sito.

Simona Aiuti - Amori, Passioni e Briganti – Cap 1 
Gente che cambia

In una zona che grosso modo oggi si può inquadrare tra Ripi e Castro dei Volsci, viveva una famiglia di contadini, povera come le altre, umile come le altre e ricca soltanto di fede nella Divina Provvidenza.

 

Pietro Paglia il capofamiglia, era ignorante come un sasso, ma aveva il cuore tenero come quello di un bimbo e due grandi mani callose da lavoratore. Possedeva un pezzo di terra che d’inverno era maledetta dalle gelate e d’estate schiacciata dall’arsura, tuttavia lo coltivava sempre con la stessa fede e lo faceva con l’aiuto della moglie Nunzia, una donna dura e severa che metteva in riga anche le oche e le galline del pollaio!

L’unico vero bene della famiglia Paglia era la figlia Anna, meglio nota come Nannina.

Anna era la ragazza più bella della zona, tanto che la madre temeva sempre il malocchio e diceva alla figlia: “Fa le corna a mamma… quando ti guardano storto…fa sempre le corna!”

Un tempo l’altezza media dei ciociari non era un gran che, per via dell’alimentazione povera, della vita dura e un po’ anche per costituzione. Al contrario Nannina era piuttosto alta, molto più delle sue coetanee che la chiamavano “la Cercia” vale a dire la quercia.

Annuccia Paglia aveva due grandi occhi verdi, i capelli di un castano chiaro che tendevano ad abboccolarsi e che lei domava acconciandoli con due lunghe trecce che le ricadevano sul prosperoso petto.

La bella bocca carnosa le si arricciava spesso in un sorriso da bimba che metteva allegria, mentre l’incarnato era leggermente olivastro e d’estate quando lavorava in mezzo ai campi, il sole l’abbronzava rendendola più bella.

Come si diceva un tempo in Ciociaria, “porche e figlie accome gl’auizie tiettiglie”, in altre parole maiali e figli, come li educhi, devi tenerli e Anna era tra le sue compagne la più educata.

Anna sembrava la gioia di vivere in persona ed era la più brava di tutte le sue amiche a ballare il saltarello nelle sere d’estate in mezzo alle aie, insomma quel poco che era la sua vita, bastava a renderla serena e a non chiedere di più alla vita.

Nunzia non era per niente contenta quando la figlia ballava in mezzo alla gente che batteva le mani al suono della fisarmonica o dell’organetto, per via dei grandi seni che sobbalzavano attirando gli occhi di tutti gli uomini, ammogliati e no.

A dire il vero, i fianchi prosperosi non erano da meno e la tipica veste ciociara accentuava le forme generose. Nannina non passava certamente inosservata e quando con la madre e le altre donne andava a fare il bucato al fiume e si chinava in avanti per sciacquare i panni e sbatterli sulle pietre, a pochi metri, dietro le fratte di more, era pieno di ragazzetti che si nascondevano in attesa di una folata di vento, per vedere le cosce nude d’Anna.

Tutto questo scivolava addosso alla bella figlia di Pietro Paglia, poiché non avendo compiuto ancora sedici anni e non avendo malizia, non si rendeva conto della sua avvenenza, sentendosi ancora piuttosto bambina.

E’ vero che con le compagne: Pasqualina, Assunta e Lina parlavano di ragazzi, ma erano discorsi di bambine che poco o niente sapevano della vita, essendo esperte solo di rosario e di novene.

Tuttavia parecchi avevano messo gli occhi addosso a Nannina, ma lei a “fare l’amore” ancora non ci pensava, anche se aveva il suo corredo pronto fatto al telaio dalla madre, e una modesta dote, cosa rara tra poveri contadini e molti in realtà guardavano solo a queste cose e non alla ragazza.

A quell’età molte figliole erano maritate e già madri, ma Pietro e Nunzia ancora non ci pensavano a vedere la figlia sistemata, forse perché anche loro la vedevano ancora bambina e non avevano alcuna fretta di farsela portare via.

Non tutti però dormivano sonni tranquilli la notte da quelle parti, specialmente certi briganti che vivevano sapendo d’essere solo pendagli da forca.

Vivevano alla macchia, d’espedienti e uno dei più leggendari e terribili nelle storie miste a leggende era Antonio Terrazzi, detto “Angioletto”, meglio noto anche come “Antonio il brigante” oppure “Angioletto il brigante”, un fuori legge che da molti anni viveva alla macchia con i suoi uomini, famosi per le loro malefatte, furti e infamie in tutta la Ciociaria.

Su quei ceffi pendeva ogni sorta di condanna e la maggior parte di loro era da tempo sulla lista del boia che affilava la sua scure da tempo in vista della mazzolata. Probabilmente avrebbe dovuto aspettare ancora un bel pezzo, poiché in quegli anni i briganti erano noti per essere feroci come cinghiali e furbi come volpi e la banda di Antonio sembrava imprendibile.

Antonio era famoso per il coraggio dimostrato in molte azioni e per la destrezza con cui maneggiava non solo lo schioppo ma ogni genere d’armi. Si era fatto una fama, che poco più che ventenne lo aveva scaraventato nella leggenda da un giorno all’altro per le gesta truculente e al solo pronunciare il suo nome, le donne si facevano il segno della croce e abbassavano la testa.

In quegli anni Angioletto andava verso la trentina: bruno con gli occhi neri come la pece e i capelli un po’ lunghi sulle spalle che nascondeva talvolta sotto un cappellaccio scuro. Vestiva che sembrava un incrocio tra un guappo e un contadino vestito in pompa magna e il suo aspetto era molto fiero e piuttosto appariscente, forse troppo per un brigante sempre in fuga.

Portava un panciotto con dei bottoni dorati su cui spiccava un cipollone con catena d’oro massiccio e indossava dei pantaloni alla zuava legati sotto il ginocchio come d’altra parte quasi tutti i suoi compagni di bravate. Ai piedi calzava due grandi ciocie tenute da legacci di cuoio che salivano sulle calze rosse o a righe di lana pesante, incrociandosi più volte, e sulle spalle in inverno portava un gran tabarro nero che avrebbe scaldato due uomini per quanto era ampio e caldo. L’insieme era di grande impatto ed era questo che voleva Angioletto.

Antonio neanche se lo ricordava più da quanto viveva alla macchia, ma era così tanto tempo che ormai quella era la sola vita che conosceva e che ricordava, la sola che era in grado di condurre e che talvolta considerava miserabile.

Di lavorare la terra non aveva mai avuto voglia e la sola volta che il padre lo aveva mandato a pascolare le pecore, si era perso due agnelli e per punizione fu frustato a sangue e chiuso nella stalla con un pezzo di pane duro.

Un’altra volta da ragazzo “Angioletto” entrò in chiesa a cavallo di una vacca mentre le donne erano riunite a recitare il Santo Rosario, tra loro c’era anche la madre che dopo averlo acchiappato lo bastonò a dovere per tutta la strada fino a casa.

All’età di sedici anni si era messo in testa di seguire un carrozzone di saltimbanchi e senza pensarci su troppo, fece fagotto dei suoi quattro stracci e scappò di casa imparando ben presto a cavarsela da solo con qualunque espediente, tuttavia la cosa non durò molto, perché fuggì con la cassa piena di scudi, e quando lo riacciuffarono passò un sacco di guai e per un po’ fu rinchiuso.

Alla fine questo figlio diventò fuggiasco e da quel momento in poi si dette alla macchia come molti altri uomini che avevano qualche debito con la giustizia.

Quel bandito d'Antonio Terrazzi ben presto imparò a fare della sua prepotenza e della sua propensione al comando l’arma vincente, conquistandosi il rispetto dei suoi pari sul campo ed in modo indiscutibile.

La vera svolta nella vita da fuggiasco, avvenne a Patrica, quando “Angioletto il brigante” tirò una schioppettata dritta in fronte ad Alfonsino il sagrestano, proprio mentre stava suonando le campane.

Lo trovarono stecchito, ancora attaccato alla corda delle campane con la faccia sfigurata dalla polvere da sparo in una pozza di sangue.

D'Alfonsino si diceva che facesse lo strozzino e che nascondesse un bel gruzzolo di baiocchi e scudi in canonica sotto la statua della Santa Vergine.

Se era vero però non si seppe mai, probabilmente perché gli uomini d'Antonio ripulirono per bene tutta la canonica e la sagrestia precedendo la prima messa, senza toccare però la statua della Madonna con tutti i suoi ori.

Si dice che i briganti abbiano festeggiato a lungo con quanto avevano arraffato, ma che non scialacquarono tutto per mangiare e bere alla faccia d'Alfonsino.

La vedova Ceccarelli che aveva perso il marito in guerra e doveva tirare su ben cinque figli, per sfamare la famiglia si era indebitata chiedendo diversi prestiti ad Alfonsino a tassi d’interesse che non avrebbe mai potuto pagare zappando la terra o lavorando come bracciante tutta la vita.

La povera donna dopo la morte del “sagrestano strozzino” vide il suo debito estinguersi miracolosamente, pagò le tasse arretrate e non si seppe mai da dove le arrivarono i soldi. In tanti videro estinguersi tremendi debiti e nessuno lo pianse quel disgraziato.

Terrazzi finì sulla lista del boia come molti suoi compagni anche per quell’omicidio, ma pareva non curarsene troppo.

Tra le tante leggende attorno ai focolari, tra un bisbiglio e l’attizzare la legna, si diceva anche che Terrazzi avesse ballato con le streghe intorno ai falò, che avesse intrattenuto una lunga relazione con una monaca che gli aveva fatto molti regali e che aveva addirittura compiuto molti rapimenti per estorcere denaro a famiglie ricche, senza restituire sempre i rapiti vivi perché li bruciava dopo averli ammazzati o li dava in pasto ai maiali! Naturalmente la gente la sera attorno ai camini ingigantiva parecchio quelle gesta, un po’ per spaventare i bambini e un po’ perché era bello aggiungere ogni volta qualcosa in più ad un aneddoto, magari facendo credere d’aver visto chissà cosa.

Il braccio destro d’Antonio era Silverio ‘Mbriacone, sempre paonazzo, attaccato più al fiasco di vino che alla pellaccia sua. Silverio era un sostenitore del fatto che“l’acqua fa male i le uine fa cantà”, ovvero che l’acqua fa male e invece il vino fa cantare.

Silverio non aveva paura neanche del diavolo in persona. Era ricercato dalle guardie del Papa per aver tagliato la gola ad un avventore della cantina dove una sera si stava ubriacando, tanto per cambiare, perché pensava di essere stato truffato a “teresina” o forse a zecchinetta.

Sempre paonazzo in viso, aveva i capelli bianchi era uno di quelli che ricordava le storie raccontate a lui bambino dagli anziani, d’altri briganti vissuti molti anni prima, e che a sua volta narrava ai suoi compagni. Aveva sentito parlare anche di Fra Diavolo, da chi l’aveva visto davvero e ogni tanto tirava fuori la storia di questo leggendario brigante di Itri, uno dei paesi più ameni e poveri della provincia di Latina, e lo faceva con orgoglio perché un suo zio pastore, un certo Americo, l’aveva conosciuto davvero questo leggendario Fra Diavolo, al cui nome le contadine si facevano il segno della croce, ma altre spregiudicate erano disposte a fare carte false per trascorrere una notte d’amore con lui.

In realtà questo famigerato brigante si chiamava Michele Arcangelo Pezza, e in quel paese che lo vide nascere, ci sono ancora i resti della casa in cui nacque. Piccolo di statura, magro, bruno, con baffi, astuto ed agile, ma da piccolo era gracilino.

La famiglia si dedicava al commercio delle olive e dell’olio, e faceva trasporto con carri ed animali nel comprensorio della zona d’Itri. Il giovane Michele aveva un debole per il gioco e per le belle donne e proprio in una rissa ci scappò il morto, cui seguì un secondo delitto per difendersi dalla vendetta della famiglia della vittima.

Ebbe inizio da quel giorno una lunga latitanza tra le montagne degli Ausoni e degli Aurunci. Pur aiutato dalla famiglia, Michele ebbe anche bisogno d’aiuto da parte di altri latitanti, con i quali portò a termine rapine e furti per sopravvivere e si fece definitivamente brigante.

Lo chiamarono proprio Fra Diavolo per via di un saio francescano che metteva anche a scuola, dopo un voto fatto dalla madre per la sua cagionevole salute. Ben presto Michele Pezza, anche per il suo carattere vivace, divenne per tutti “Fra Diavolo” e così attraversò la storia sulla freccia della leggenda. L’arruolamento nell’esercito borbonico per espiare la pena e la sua trasformazione in capopopolo per difendere la sua terra dall’invasione francese, ne hanno costruito un personaggio che ha alimentato la fantasia popolare fino ad arrivare ai giorni nostri.

E’ incredibile pensare che un uomo quasi analfabeta e che viveva da brigante, abbia messo in atto una “tecnica di guerriglia” che gli permise di fermare, sia pure per poche ore, nel 1798, nella gola di Sant’Andrea, tra Fondi ed Itri, lungo la via Appia antica, l’avanzata del potente esercito imperiale francese. In quel punto, dopo la pianura di Fondi, l’antica consolare romana s’inerpicava, controllata da un fortino borbonico, attraverso gole e montagne, prima di ridiscendere verso Itri e poi verso il mare di Formia, per proseguire per Capua ed arrivare fino a Brindisi.

Il fortino, costruito nel sedicesimo secolo, sui resti di imponenti templi dedicati ad Apollo e Mercurio, e i pendii delle circostanti montagne erano il luogo ideale per far diventare poche migliaia di uomini, semplici popolani, contadini e artigiani, ma ben guidati, una “potente armata” sotto quell’uomo che aveva carisma da vendere.

Silverio diceva che non ne nascevano più di uomini così, e non ci sarebbe mai stato un altro uomo come Michele Pezza! Era sul serio leggendario Frà diavolo e da Itri, attraverso le montagne, e la vallate, le sue gesta arrivarono a Frosinone e quindi fino ai giorni nostri.

Intanto, anche trent’anni o quarant’anni dopo, la lotta al brigantaggio continuava e le campagne ciociare bollivano d’umori e passioni, ingiustizie e collere che dilaniavano le solitamente placide campagne.

Nella banda di Antonio Terrazzi, che a coraggio e temerarietà non aveva nulla da invidiare a suoi pari d’altre zone d’Italia, poteva contare su fidatissimi uomini non solo forti, ma abili, scaltri e forse anche fortunati. Tra questi c’era anche Gerardo Cardelli detto “Organetto”, perché gli piaceva suonare, sapeva fare perfettamente il verso degli uccelli e viveva da fuggiasco con una serie di condanne per non aver pagato le tasse, per aver contratto ogni sorta di debiti e per aver rubato un maiale nientemeno che da un convento di suore di clausura.

Organetto una volta faceva la vita del bravo cristiano, ma aveva una sorella tanto bella quanto pia che non aveva il destino di vivere tranquilla.

Questa ragazza si chiamava Concetta, aveva diciassette anni e nonostante i corteggiatori non le mancassero, aveva deciso da tempo d’entrare in convento e di prendere i voti perpetui. La vocazione di Concetta era sincera e molto bene doveva saperlo don Pasqualino, un prete sulla quarantina che puzzava di tabacco e zuppa di cavolo e che era anche confessore della ragazza.

Egli più di tutti doveva conoscere la vocazione limpida della sua parrocchiana, infatti, la elogiava e la portava sempre come esempio per molte altre ragazze.

Un giorno, non si sa come e non si sa perché, don Pasqualino perse del tutto la testa e cominciò ad accarezzare le vesti di Concetta, dicendole che era bella come una Madonna dipinta e che le avrebbe dato tutto quello che voleva pur d’averla almeno una volta.

La poveretta si oppose con fermezza e con tutte le sue forze respinse l’uomo che la insidiava, respingendolo anche con calci e schiaffi.

Don Pasqualino ad un tratto afferrò con forza Concetta e nella colluttazione entrambi rotolarono a terra lottando e dibattendosi.

La poverina tentò d’urlare, ma l’uomo piuttosto corpulento, le strinse le mani attorno al collo e continuò fino a quando Concetta esalò l’ultimo respiro e giacque senza vita sul pavimento strangolata.

Quando il prete si rese conto di ciò che aveva fatto, corse a rotta di collo fuori dalla canonica e andò a rifugiarsi nel convento dei frati cistercensi.

Organetto giurò che avrebbe vendicato la sorella e così fece. Dopo appena tre giorni dal funerale della ragazza, don Pasqualino fu preso nel cuore della notte e trascinato a viva forza sulla cima del campanile della chiesa, legato per il collo ad una corda e gettato nel vuoto.

Da quel momento Gerardo Cardelli, detto “Organetto” sparì e di lui la famiglia non seppe più niente per un pezzo.

Sulla sua testa pendeva una condanna a morte da anni, e il boia attendeva con ansia anche lui per la mazzolata.

Il più pericoloso degli uomini di Angioletto era Ormisda Pezzella detto “il cornuto”, perché un giorno aveva beccato la moglie, che da qualche tempo se la faceva con Pierino il caciottaro, un tizio che girava con il suo carrettino per le campagne per vendere ricotte, formaggio stagionato e che ogni tanto concedeva alle contadine qualche extra molto volentieri.

Ormisda che era grande e grosso come un toro, sorprese gli amanti nudi sul tavolaccio della cucina, li squartò entrambi come maiali senza pietà e si mangiò anche una caciotta di Pierino e lo fece con lo stesso coltello a serramanico appena usato sui due amanti. Pezzella sembrava davvero non aver cuore e quando per sfotterlo glielo dicevano, lui ribatteva che n'aveva mangiato più d’uno in vita sua!

Infine c’era Armando Tartaglia, che neanche a dirlo balbettava e aveva perso un occhio scappando dall’officina di un maniscalco. L’avevano sempre considerato poco dalle sue parti, un uomo quasi insignificante, ma come si dice a Frosinone, “ so’ pucie ippure tienne la tossa”, ovvero, anche chi sembra di poco conto sa far sentire la sua voce.

Armandino Tartaglia un mattino era andato a far ferrare il suo somaro peppozzo, che poco propenso alla ragione aveva dato un calcio a quel poveretto che lo stava ferrando. Il maniscalco per risposta bastonò peppozzo e ne nacque una rissa con il padrone della bestia, intervallata dal raglio del somaro e dal balbettare incomprensibile di “Tartaglia”.

Nella colluttazione che ne venne fuori, ad Armandino arrivò sul volto un attizzatoio arroventato che gli portò via l’occhio destro, ma il maniscalco non visse abbastanza da raccontarlo.

Nei paraggi si trovava Ormisda Pezzella, che udite le grida dell’amico, accorse immediatamente e avendo visto i fiotti di sangue uscire dall’orbita oculare del disgraziato, gli infilò un dito laddove l’occhio non c’era più e con l’altra mano piantò il suo coltello a serramanico nel petto del maniscalco.

Armandino ebbe comunque abbastanza forza da prendere la cassa con le mani insanguinate e dare fuoco all’officina rovesciando il braciere.

Tutti quegli uomini che si nascondevano alla macchia sulle montagne, dormendo nelle grotte e cacciando lepri e fagiani, e che incutevano paura in molti pastori e contadini, avevano tuttavia un codice d’onore che per quanto discutibile per loro era legge.

I briganti tra l’altro avevano l’abitudine d’assaltare le diligenze e in uno di questi assalti compiuti e guidati da Terrazzi, alcune nobildonne donarono spontaneamente molti dei loro gioielli, terrorizzate dalle armi puntate loro contro per aver salva la vita.

Non tutte però temevano il pericolo più per superbia e alterigia che per coraggio, come la duchessina Clotilde Maria Cecilia Gottardi, che buttata giù dalla carrozza, si mise a sputare in faccia a Ormisda Pezzella insultandolo davanti agli altri uomini.

“Mio padre vi farà tagliare la testa…..sporchi briganti senza Dio….vi maledico….vi maledico, maledetti voi e tutte le vostre famiglie e che i vostri figli non vedano l’età della ragione!!”

Gerardo le assestò un paio di schiaffi ma Pezzella detto “il cornuto” non si ritenne appagato, accecato da quelle parole, prese la duchessina, la portò tra i cespugli, le strappò i mutandoni ricamati e la violentò puntandole un pugnale alla gola, dopodiché la sgozzò come un capretto e la fece ricapitare così alla famiglia.

Dopo il fatto tutti i briganti fuggirono a cavallo con il bottino, e da quel momento in poi e altre condanne pesarono sulle loro teste.

Quell'Antonio Terrazzi che lasciava ai suoi uomini il massimo della soddisfazione durante le azioni, si era fatto anche una certa reputazione tra le donne e il bell’aspetto lo aiutava molto. Anche se non aveva una sola femmina al suo fianco perché una era troppo poco, diceva che se non gli avevano messo i ferri le guardie del Papa non l’avrebbe messo in catene neanche una sottana.

Forse però non aveva ancora incontrato la sottana giusta, infatti, era destino che Nannina Paglia dovesse capitare proprio sulla strada di “Antonio il brigante”.

Era un novembre freddo e piovoso quello che stava avvolgendo la Ciociaria quell’anno, e la terra non avrebbe concesso i suoi frutti senza la contropartita del duro lavoro a cui nessun contadino poteva sottrarsi.

Era il tempo della raccolta delle olive, un’attività a cui tutti si dedicavano, spesso sgobbando sulle piante dei signorotti per pochi soldi e per ancor meno olio da mettere in dispensa.

Anche la famiglia Paglia si dava da fare e quell’anno, lavorando sodo schiacciata da un freddo pungente di quel novembre più rigido del solito, che spezzava loro le mani e tagliava la faccia.

Una di queste giornate dopo aver mangiato qualcosa, Nannina avrebbe dovuto continuare a lavorare, ma c’era un bel sole e Pietro non aveva cuore di vedere la figlia ancora piegata tutto il resto del giorno a raccogliere le olive che il gelido vento aveva buttato per terra e così le dette una cesta e la mandò a fare i funghi alla macchia. Ad Anna non sembrò vero e corse via a chiamare Pasqualina, prima che la madre Nunzia la richiamasse per farle fare qualche faccenda. Quell’amica che era sempre stata la prima quando c’era d’andare a zonzo, aveva le vesciche ai piedi e le mani gonfie per aver lavorato sotto parecchie piante d’ulivo e non si alzò neanche dalla sedia quando vide Annuccia sull’uscio.

Nannina di certo non aveva paura di girare da sola, in quanto conosceva tutta la zona palmo a palmo e così salutò Pasqualina e andò dritta dove sapeva che avrebbe trovato un po’ di funghi da riportare a casa.

Proprio da quelle parti dove Anna stava bighellonando pigramente con solo pochi porcini nel cestino, stava transitando Antonio Terrazzi, che durante la notte era andato segretamente a trovare la madre malata e in fretta stava raggiungendo il covo dove lo attendevano i suoi uomini, camminando per sentieri poco battuti.

Fu così che come un diavolo scappato fuori dall’inferno, “Angioletto” con tanto di cappellaccio nero e tabarro si parò davanti ad Anna, che lanciò un grido e buttò per aria la cesta ed i quattro funghi appena raccolti.

La poveretta rossa in volto si dette subito da fare per raccogliere le sue cose, lasciando intravedere i seni prosperosi sotto la camiciola, sorretti appena dal corpetto.

Antonio rimase colpito dalla bellezza della ragazza e si prodigò ad aiutarla, specialmente quando lei fece per andarsene, trattenendola per un braccio e facendola sedere. Trasse la borraccia da sotto il mantello e dette ad Anna un goccio della grappa che si portava sempre appresso, tanto per darle coraggio.

“Non tenere paura! Io sono Antonio Terrazzi il brigante, ma non mangio mica le belle figliole come te!”

Anna diventò tutta rossa, un po’ per la grappa e un po’ per la vergogna.

“Che madre tieni che ti manda sola con i pericoli che ci stanno?”

“Doveva venire pure Pasqualina l’amica mia co’ me.”

“Lo sai che certi briganti che conosco tagliano la gola alle belle figliole come te dopo che c’hanno fatto il servizio?”

Anna non capiva bene e non sapeva cosa dire, pensava solo a un modo qualunque per congedarsi e andare via.

“Me ne devo andare, è quasi buio!”

“Aspetta, dimmi un po’ come ti chiami? Di chi sei figlia?”

“sono la figlia di Pietro Paglia e di Nunzia….Sono la nipote di Peppina la materassaia e di Serafino il bottaio.”

“La conosco la famiglia tua, mamma mia quando stava bene lavava i panni con Peppina al fosso, ma è meglio che non lo dici a nessuno che mi hai visto! Io vivo alla macchia!”

“Me ne vado adesso, devo aiutare mamma mia.”

Nannina era sempre più impaurita, annuiva soltanto con la testa e poi ad un tratto si alzò di scatto e scappò via a gambe levate, continuando a correre a rotta di collo rischiando più volte di finire lunga per terra.

Quando arrivò a casa, non aveva neanche un fungo, era tutta sudata e spettinata per la corsa e per evitare che Nunzia prendesse d’aceto, si precipitò vicino al camino dietro la sedia spagliata dove il padre stava riposando le ossa.

Il fuoco era mo