Odore di Sujo – Romanzo – di Alfio Giuffrida - Editore: Il Seme Bianco  2019 -  Reparto: Romanzi / Narrativa Moderna e contemporanea

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Presentazione

Alfio Giuffrida

ODORE DI SUJO

Prefazione

“Un thriller d’azione e politico con intenti di denunzia sociale”, così è definito Odore di sujo dal suo autore.  Ora Alfio Giuffrida sembra aver molto riflettuto sulla natura e sulla struttura di ciò che stava scrivendo, inserendo l’opera in un vero e proprio progetto letterario all’ombra di quello che lui chiama “Verismo interattivo”, già individuato nei suoi precedenti romanzi. 

Che, di là dalle brusche semplificazioni che può comportare una simile definizione, nella sostanza significa fare i conti con la realtà bruta dell’attualità cercando nello stesso tempo quanti più agganci e condivisioni per far sì che ciò che si narra possa essere in sintonia con le attese del lettore e con il suo sistema valoriale rispetto al continuo assillo di problemi aperti, situazioni emergenti, conflitti che si trascinano negli anni. 

Ad esempio, proprio partendo dall’evento alla base dell’intero racconto (la scomparsa di Giorgio, extraparlamentare all’origine, cognato di chi riferisce la storia, che sarà poi ritrovato ferito in modo misterioso), scaturisce tutta la riflessione sul Sessantotto.

Con la sua sofferta eredità, le sue controversie denunziate fin dal primo capitolo e poi disseminate nel corso della narrazione: “Per alcuni anni abbiamo sentito sulla pelle l’ansietà di vivere quel periodo storico di cui eravamo protagonisti, quando l’opinione pubblica era divisa tra chi sosteneva che si trattasse di uno straordinario momento di crescita civile e chi, invece, lo interpretava come il trionfo della stupidità generalizzata”. 

Così il “thriller d’azione” di azione ne ha davvero tanta, e non fa davvero difetto di materia per una detection incalzante che cambia continuamente scenari e irrompe con effetti sempre inattesi e spiazzanti. Il lettore può davvero inseguire i suoi protagonisti e le comparse del gran gioco narrativo, con le sorprese, le agnizioni, i colpi di scena, i ribaltamenti di prospettiva, gli inserimenti più o meno allusivi di fatti clamorosi di cronaca politica e giudiziaria.

E in tutte le loro trasformazioni, anche di genere come si potrà a un certo punto costatare. E su una ribalta che continuamente muta, dalla Cuba controrivoluzionaria alla Roma dell’intrigo politico alla Valencia dello spaccio mondiale della droga e così via.

Come un caleidoscopio nell’occhio: tanto è forte la regola che dovrebbe regolare la struttura di ogni suo disegno, tanto variano le forme e i colori appena li agiti un po’. 

Ma una cosa caratterizza la storia così vertiginosa e così incalzante (con fughe su motoscafi notturni e voli disperati destinati a schiantarsi) che talora sembra avere il ritmo cinematografico di un racconto di Fleming, in una delle sue tante versioni che hanno vampirizzato lo scrittore inglese.

E che impegna tutti gli attori della vicenda in un incastro sempre più fitto di eventi in cui, al limite della verisimiglianza che accende il romanzesco con i suoi elementi più forti (come la ricerca di un figlio perduto), i destini sembrano alla fine a sorpresa soprapporsi l’uno all’altro, e l’uno rimandare all’altro grazie alle continue rivelazioni.

Il fatto è che l’azione in più occasioni è detta, narrata, attraverso il filtro dell’affabulazione spesso con più persone coinvolte. 

Racconta le sue rocambolesche avventure, le fughe, i pedinamenti, gli agguati da Cuba alla Giamaica, dal Brasile alla Spagna all’Olanda, Jennifer, intorno a cui come in un puzzle si compongono quasi tutte le altre esistenze.

Racconta il giudice che si è reso protagonista di una clamorosa effrazione, narrando il suo vissuto adolescenziale, il tormentato rapporto con il padre, il trauma, la sofferta scelta sessuale. 

E, allora, dove lo svolgimento è rapido, secco, davvero imprevedibile, e capita davvero di tutto e i destini si aggrovigliano e si sgrovigliano in sorprese continue (familiari, sociali, investigative), la narrazione che ne consegue per forza di cose rallenta, raffredda, commenta, indirizza, sottolinea, puntualizza. Il racconto dentro un altro racconto.  

Così il romanzo assume questa sua particolare forma che è anche la scommessa narrativa di Giuffrida: quella di scivolare dentro la rete labirintica di un thriller d’azione in cui possono accadere anche le situazioni più incredibili, come che un episodio madre di riconoscimento delle identità sia ambientato in una piazza San Marco deserta e sconvolta dal nubifragio. 

E che nello stesso tempo, come dinnanzi a un crocevia in cui miracolosamente si trova di volta in volta la strada giusta, affiora la tessitura per così dire di riflessione, l’intento che puntella, comprende, devia l’azione. 

Come nel penultimo capitolo, costruito come il piccolo teatro di una conversazione con sulla scena una collettiva discussione a più voci in cui ognuno esprime il proprio punto di vista sul decadimento dei costumi, il lascito degli ideali e il confronto/scontro con la rugosa realtà in cui ognuno porta il peso della propria esperienza: quell’esperienza conosciuta attraverso gli esempi vari incarnati nei personaggi, il giudice, l’ex sessantottino, l’avventuriero, la donna misteriosa dall’ambiguo passato politico e sessuale.

Così alla fine ecco che si delinea meglio la natura di questo giallo che racconta e insieme ragiona su ciò che va narrando. Ad esempio (ecco un altro tema forte che affiora) attraverso la corruzione della classe politica che ormai non si limita a piccoli compromessi con la malavita organizzata, ma ne prende parte attiva. 

“La politica era diventata la meta più ambita dai lestofanti scatenati, da quell’interminabile schiera di arrampicatori sociali che l’aveva stuprata, violentata, le avevano strappato i vestiti da regina e l’avevano ridotta a fare la sgualdrina”. 

Renato Minore 

 

 

L'inizio

Capitolo I

I ricordi del ’68

Erano le 2:00 di notte, e io mi trovavo ancora in ufficio impegnato nel mio turno di lavoro a studiare le carte isobariche in vista delle previsioni meteorologiche che avrei annunciato l’indomani. 

Il mio era un lavoro che non conosceva limiti di tempo, doveva essere attivo 24 ore su 24, per 365 giorni l’anno. “Il Servizio Meteorologico dell’Aeronautica non dorme mai”, aveva detto qualcuno in vena di slogan. 

A un tratto il mio cellulare si mise a trillare.  Il display s’illuminò e apparve un nome che non vedevo da mesi, ma che conoscevo molto bene.  Una scarica di adrenalina percorse il mio corpo, il braccio, intorpidito dall’emozione, si mosse meccanicamente e la mano tremante afferrò l’apparecchio e lo portò all’orecchio.

Era ormai da molto tempo che pregavo per sentire quella voce, mentre una volta le sue telefonate erano continue, assillanti e quasi opprimenti.  Aspettavo con ansia un qualsiasi cenno da parte sua, uno squillo o una chiamata proveniente da quel numero e adesso, che il suo nome appariva di nuovo, nel momento più inaspettato, ero quasi in preda a un attacco di panico. Che cosa poteva essere successo? Perché mi chiamava a quell’ora?

 

«Pronto ,» balbettai con voce esitante, trepidante di sapere cosa ne fosse stato di lui. Ma il piccolo altoparlante rimase muto, come se fosse anch’esso rimasto privo di parole. 

«Pronto, Giorgio, sono Alex ,» ripetei con voce più forte, mentre i nervi del volto si contraevano in una smorfia di dolore.  «Sto sotto al pontile», disse una voce cavernosa e sofferente all’altro capo del telefono. E non aggiunse altro.

La comunicazione s’interruppe, nonostante mi ostinassi a ripetere «Pronto», a chiamarlo per nome, con maggiore veemenza, con affanno.    Provai più volte a richiamare quel numero, ma risultava irraggiungibile, come se il cellulare fosse stato spento. I miei colleghi, che quella notte mi affiancavano nel turno di lavoro, si erano riuniti tutti in semicerchio attorno a me e mi guardavano in silenzio. Le loro braccia, come tutto il mio corpo, si ricoprirono di un leggero strato di sudore freddo. 

Mi conoscevano bene, ero metodico, professionale, dedito al mio lavoro, corretto nei confronti della società. Eppure nella mia famiglia c’era una macchia nera, un qualcosa che evitavo di approfondire, perché era un argomento di cui non potevo essere orgoglioso.  Tutti sapevano di quel mio problema e si compenetravano nella mia preoccupazione. Non era solo curiosità, il loro affetto era sincero. Loro aspettavano da me una spiegazione, eppure io non riuscivo a dire nulla, in quel momento ero rimasto impietrito.  Il mio sguardo era assente, impegnato a scrutare momenti lontani, sempre vivi nel grande cassetto dei ricordi. 

Affioravano nella memoria quei volti tesi di noi giovani audaci, desiderosi di rinnovare una società che ormai puzzava di vecchio. Un mondo che fino a pochi anni prima era giudicato immobile, imperturbabile, adesso non era più così: si poteva cambiare. Allora tutti noi eravamo in preda a una frenesia senza pari, convinti che tutte le regole che a quel tempo limitavano le nostre azioni, come la morale o l’ordine pubblico, fossero solo dei vincoli inutili, da bruciare.

Credevamo che le norme fossero sbagliate e che occorresse cancellarle tutte per rifarle daccapo, basandoci su quelle che noi chiamavamo ‘idee di libertà’. Tutto era da ricostruire secondo nuove disposizioni e ciascuno improvvisava di essere un politico in grado di fare nuove leggi più eque e più moderne.

La politica era la materia più controversa e discutibile nei fatidici anni del ’68, quelli della rivoluzione culturale, quando molti erano convinti di essere degli ‘intellettuali’.  A quel tempo tutti dibattevano delle correnti filosofiche allora vigenti, di pace, delle guerre inutili che si combattevano in ogni parte del mondo, per il solo scopo di vendere armi. 

Per alcuni anni abbiamo sentito sulla pelle l’ansietà di vivere quel periodo storico di cui eravamo protagonisti, quando l’opinione pubblica era divisa tra chi sosteneva che si trattasse di uno straordinario momento di crescita civile e chi, invece, lo interpretava come il trionfo della stupidità generalizzata. I liceali erano entusiasti di avere conquistato il potere, di dare del ‘tu’ al professore.

Si sentivano già colti, in diritto di sostenere e diffondere le proprie idee, convinti di poter fermare la violenza con un dito, con la sola forza delle loro teorie. Poveri illusi. Ne parlavano con ingenuità o con convinzione? Alcuni, sicuramente, erano in buona fede, altri avevano già subìto, a opera di pochi fanatici, un processo di persuasione che li aveva indotti a pensare non con la propria testa, bensì con quella altrui. 

In ogni campo c’era un grande fermento: famiglia, istituzioni, società, politica; tutto veniva messo in discussione, picconato alla base per rifondarlo su nuovi principii. E adesso? Che cosa avevamo al loro posto? In molti casi qualcosa di diverso, forse di migliore, sicuramente di più tecnologico. In altri settori, come ad esempio la scuola, invece, non era ancora iniziato alcun processo di ricostruzione, era rimasto solo un grande catino pieno di carte stracce.

Eppure chi, come molti di noi, ha vissuto quel periodo, lo ricorda con nostalgia, chiude gli occhi e sente ancora l’ardore con cui ha combattuto quella guerra, il fuoco dei cannoni che divampava dentro i nostri cuori. Il mestiere del politico, in quegli anni, ha subìto una trasformazione storica: non più programmi elettorali improntati al bene comune, presentati nelle varie, e noiose, trasmissioni, ma soldi e libertà divennero gli argomenti di tendenza, che coinvolsero da quel momento in poi il pubblico, che iniziò così a mostrare maggiore interesse. 

Si assisteva sempre più frequentemente ai patti scellerati tra governanti e impresari, apparentemente finalizzati a realizzare strutture pubbliche che avrebbero dato lavoro a molti e benefici a tutti, quando in realtà avevano solo il recondito interesse a spartirsi fra loro la torta del denaro pubblico.  Intrighi malcelati fra amministratori di beni pubblici e individui di dubbia rettitudine, che tuttavia facevano presa su giovani e adulti.

Molti politici si erano messi a spulciare i vari contratti di lavoro e, in ogni comizio che tenevano, evidenziavano ai giovani quali erano i loro diritti. Costoro li hanno ascoltati fiduciosi, senza curarsi del fatto che a ogni beneficio si contrapponevano anche dei doveri che altre persone avrebbero dovuto assumersi. La parola ‘dovere’ era stata associata, in modo indissolubile, alla tirannide e cancellata dal loro vocabolario. Dovevi pretendere di poter fare ciò che volevi, in nome di una libertà senza vincoli né limiti. 

Era finito il tempo del burocrate severo di mentalità e d’aspetto, dominavano ora la scena dei giovani rampanti, dalle idee geniali, innovative e, a volte, anche spregiudicate. E la politica era diventata la meta più ambita dai lestofanti scatenati, da quella interminabile schiera di arrampicatori sociali che l’avevano stuprata, violentata, le avevano strappato i vestiti da regina e l’avevano ridotta a fare la sgualdrina. 

Eppure anche quel periodo è finito. I giovani d’oggi raramente, o mai, parlano del ’68. È un argomento sorpassato. La vita ci ha messo di fronte altre realtà e quelle ideologie, delle quali ci facevamo portavoce, sono rimaste sotterrate, chiuse nel cassetto dei ricordi. Ma non per tutti.   …


Qualche brano dal libro 

CAPITOLO 2

L’arrivo al pontile

Arrivai a Ostia, sul litorale di Roma, con il cuore in gola. Mi diressi subito al pontile e fermai la macchina al bordo del marciapiede. Davanti a me c’era uno spiazzo enorme, dove ancora qualche coppia passeggiava, nonostante fosse notte da un pezzo.

Eravamo ormai in piena estate, quella del 2003, passata alla storia come la più calda degli ultimi trenta anni. Quella che, a causa dell’afa, aveva fatto molte più vittime della strage dell’11 settembre a New York!

Già, perché l’atmosfera, quando le ‘gira storto’, riesce a uccidere non solo con le alluvioni, che spazzano via case e interi villaggi, o con le raffiche di vento che sradicano gli alberi, ma anche con la semplice calura, che impedisce alle persone di respirare.

La natura va per conto suo, ci nutre o si accanisce contro a suo piacimento, senza badare al fatto che siamo potenti signori o semplici operai, fregandosene del nostro egoismo o altruismo. Il tempo, quello meteorologico, fa quello che vuole e ha una energia talmente elevata da non poter essere fermato neanche con i più potenti mezzi di cui disponiamo al giorno d’oggi.

Se non avessi ricevuto quella telefonata, avrei considerato quella notte meravigliosa, un incanto da assaporare con gusto. Tuttavia c’era un pensiero che invadeva la mia mente, che non mi dava tregua: “gli è accaduto sicuramente qualcosa di spiacevole”.

Scesi dall’auto e mi guardai intorno, la luna era alta in cielo, ignara della tragedia che si era appena consumata. Non c’era alcun movimento strano, nulla che potesse indicare che ci fosse qualcuno da soccorrere.

Ricordai le parole di Giorgio: «Sto sotto al pontile»; dunque doveva essere in spiaggia, in qualche anfratto buio dove nessuno poteva notarlo.

Scavalcai il muretto dalla parte dello stabilimento Battistini e mi addentrai camminando sulla sabbia, lo costeggiai fino al punto in cui si apriva in un varco, sotto il pontile, che si protendeva verso il mare.

Mi sforzavo di vedere qualcosa, ma le luci illuminavano poco quell’ambiente ristretto. Tutto era ovattato, anche i suoni e il vociare lì sotto erano attenuati.

L’unico rumore che prevaleva sugli altri era quello delle onde che s’infrangevano sulla spiaggia deserta. Avevo paura di chiamare il suo nome ad alta voce.

Dei dubbi cominciarono ad assalirmi. Perché aveva chiuso il telefono subito dopo quella frase? Forse perché vi era qualcuno a tendere un agguato, pronto a fare del male sia a me sia a lui?

 

Jennifer

«Io sono nata a Cuba», cominciò a raccontare con voce sottile, non sforzandosi più di nascondere il suo accento sudamericano «alla fine degli anni ’50. Quando ancora al governo c’era Batista.

Mi chiamavo Graciela e provenivo da una famiglia agiata: mio padre era un magistrato e aveva, altresì, ricoperto alcuni incarichi politici, anche mia madre discendeva da una famiglia altolocata. Ero sicuramente una bambina nata tra mille fortune, tuttavia non riuscii a godere dei privilegi del regime.

Avevo meno di un anno quando Castro e i barbudos entrarono trionfanti a L’Avana. Per la mia famiglia cominciò un dramma senza fine: i miei genitori furono subito giustiziati senza un processo, senza un perché.

Io fui adottata da una zia nubile, che si prese cura di me. Lei era superficiale e opportunista, non le interessava minimamente il regime di governo. Barbudos o colletti bianchi per lei erano la stessa cosa, e non perse tempo a trovarsi amici importanti anche tra i politici del nuovo esecutivo. Fu l’unica, tra i miei congiunti, a non subire alcun processo di epurazione sociale.

Tuttavia, quando io e lei rimanevamo da sole a parlare, mi diceva sempre della enorme differenza che c’era tra la classe aristocratica e le ‘pulci’ arricchite, come chiamava lei gli affaristi improvvisati che, dal nulla, avevano creato imperi economici in tempi brevissimi.

Era solita anche sottolineare lo stile elegante e raffinato di mio padre, uomo onesto, dai principi saldi e incorruttibili, che aveva affrontato la fucilazione a testa alta, piuttosto che piegarsi alle imposizioni del nuovo direttivo.

La Checca

Andarono tutti via, tranne quel giovane che conosceva la Cubana.

“Se vuoi incontrarla, la trovi in fondo a questa strada. Dietro un grande albero vi è una capanna gialla ove lei risiede, ma, mi raccomando, non chiamarla con l’appellativo di Cubana, come fanno gli sbirri. Qui nessuno è più abituato a quel nome. Chiedi della Checca, ormai la conoscono tutti così”.

Mi avviai lì, zoppicando. Vidi il grande albero e mi guardai intorno. Dietro un cespuglio semicoperto da stracci sporchi, scorsi un largo telo giallo. Era sorretto da quattro pali ai lati e uno, più alto, posizionato al centro per dare una tipica forma di tetto, in modo che l’acqua piovana potesse scivolare via. Sul davanti era cucito un altro pezzo di stoffa cerata che faceva da pensilina, forse con lo scopo di delimitare la proprietà di un ulteriore spazio, dove erano ammassate delle buste che sembravano di spazzatura, ma probabilmente erano solo dei panni ancora utilizzati.

Mi avvicinai un po’ e subito sbucò dall’uscio un’anziana signora, dall’aria stanca e demotivata. Mi guardò per bene, come se cercasse di riconoscere qualcuno che attendeva, ma accorgendosi che nessuno dei miei tratti erano a lei familiari, si avviò verso il retro della tenda. Squadrai il posto a me circostante, non c’era nessuno, eppure mi sentivo osservata, come se fossi seguita da mille occhi nascosti in quella giungla.

Mi era sembrato di scorgere, tra i rami dei cespugli, il volto di qualcuno dei ragazzacci che mi avevano assalito poco prima. Cercai in giro, desiderosa di incontrare nuovamente lo sguardo del giovanotto che mi aveva strappato la borsetta. Quel volto lo avrei riconosciuto tra mille: disperato, spietato, anche se, in fondo, nei suoi occhi si percepiva tanta paura e anche un accenno di compassione.

Prima di girare l’angolo, la donna si voltò sospettosa e mi fissò ancora una volta, ma non ebbe nessuna reazione. Io invece ricordai qualcosa nel suo volto rugoso, scavato dal tempo e segnato dalla mancanza di qualsiasi cura. Quando ritornò, ebbi la sensazione che lei si aspettasse di ritrovarmi lì ad attenderla.

“Che vuole?”, mi chiese con fare sgarbato.

“Cerco la Checca”, risposi io con voce gentile, sforzandomi di rispettare le regole di quell’ambiente selvaggio e non espormi a rischi inutili.

“Perché la cerca?”, reclamò, mentre mi scrutava da capo a piedi.

“Molti anni fa”, ripresi io con voce timida e sommessa, “avevo conosciuto una signora, che viveva in un lussuoso appartamento nella periferia ovest della città. Era originaria di Cuba e…”. Continuai io mentre, guardando il suo volto, scoprivo sempre più particolari che non mi erano affatto nuovi.

“E cosa vuole da questa signora? Perché proprio lei?”, rispose diffidente. Pur esaminandomi con estremo impegno, non riuscì a cogliere in me nessun particolare che le rammentasse qualcuno o qualche episodio del passato in cui io potessi essere stata presente.

Mi sentivo più tesa delle corde di un violino. Il nostro incontro, in un piccolo quartiere dove si conoscevano tutti, aveva destato grande curiosità. I sentieri che un minuto prima erano deserti, si erano animati di donne che uscivano guardinghe dalla loro tana, prendevano velocemente qualche oggetto e rientravano subito dentro, dopo aver rivolto un’occhiata penetrante verso noi due che dialogavamo, fronteggiandoci con aria tesa e circospetta.

Anche le fronde degli alberi e dei cespi si muovevano in continuazione, lasciando intravedere per qualche attimo gli sguardi indiscreti che apparivano e immediatamente scomparivano, e udire bisbigli concitati di bambini che cercavano di non farsi sentire, ma poi ridevano e correvano a nascondersi.

“Per anni sia io che la signora di cui le parlo abbiamo trascorso una vita ben più agiata di quella di oggi, godendo di una serenità temporanea, che avrebbe avuto poi la sua fine. Altre persone ci hanno estromesso dai nostri beni e li hanno fatti propri, senza darci la possibilità di reagire a un torto simile”, rivelai io, cercando di destare in lei dei ricordi che le facessero venire in mente il periodo in cui ci eravamo conosciute. “Poi, un giorno, io dovetti fuggire e a quella signora affidai un bambino… che si chiamava Pablo”.

Checca strabuzzò gli occhi e mi fissò atterrita, riconoscendomi ora finalmente, e prestando ancora più attenzione ai miei tratti somatici.

 “Nooooo!”, esclamò forte in un grido di dolore, e subito dopo si azzittì. “Non è possibile… sei tu?”, proferì a bassa voce, cercando di far capire a se stessa che quella situazione, pur sembrando assurda, poteva essere vera.