Questo è un brano del romanzo “Due corpi, una sola mente”, di Cosimo Mirigliano. Il testo è “Proprietà letteraria riservata” dell’Autore. La pubblicazione di parte di esso su questo sito è stata effettuata con il permesso dell’Autore, che ne ha inviato una copia in formato editabile all’amministratore del sito. Cosimo Mirigliano è un giovane architetto con la passione della scrittura.

Il suo primo libro è: “Due corpi, una sola mente”.

Sinossi

Giacomo, giovane architetto precario, ha lasciato la casa dei suoi genitori nel sud Italia 10 anni prima per trasferirsi a Roma. Dietro quella partenza si nasconde un segreto. Giacomo infatti ha scelto di andarsene per sfuggire ad un dolore profondo, che lo porta ad entrare in perenne conflitto con se stesso e con chi lo ama. In una Roma di caos e vitalità, incontri casuali e profonda solitudine, Giacomo affronta un percorso difficile verso la sua rinascita, accompagnato da tre personaggi che gli fanno da contrappunto. Luca, l’amico dello sballo, rappresenta la sua anima più distruttiva. Arturo,  da personaggio dai tratti ambigui che vive nell’ombra di Giacomo, diventerà a poco a poco una figura cruciale per lo snodo della storia. E infine l’unica donna del gruppo: Gaya. Solare e allegra,  rappresenta la parte sana di Giacomo, che malgrado lo ami profondamente sarà costretta a lasciarlo per non farsi distruggere.

Il romanzo ha inizio proprio con la partenza di Gaya, e in un gioco di flashback racconta il difficile percorso di Giacomo per ricomporre il puzzle della sua esistenza, e creare un nuovo possibile futuro.

 

Parte prima - L’andata

 

Dopo una notte di birra e sigarette Giacomo si sveglia da solo nel letto che per sette anni ha diviso con Gaya. Oggi sarebbe stato il loro anniversario, e pensare che c’è chi dice che non vale la regola del settimo anno. Dall’ultima litigata sono trascorsi dodici giorni. E appena dodici ore da quando ha deciso di mettere fine a una situazione che da troppo tempo oramai non funzionava più.

Malgrado Gaya non ci sia, però, la stanza o, come la chiama lui, il bunker, è impregnata del suo odore. Si gira verso l’interno del letto e il cuscino rosa, pomposo e morbido come le sue tette, è ancora lì.

«Ho deciso io di finirla e allora perché non capisco cosa sia successo davvero?»

Squilla il cellulare. Lo afferra a tastoni, risponde. Sono gli amici dello sballo. Sì sì, ok. Dopo cena appuntamento dall’egocentrica del gruppo. Sicuro che all’inclusive, ci rimedia anche una notte di sesso con la padrona di casa.

Chiusa la conversazione lancia tutto per aria; cuscini, lenzuola, piumone e va verso il bagno per farsi una doccia e togliersi di dosso l’ultima traccia di una notte senza senso. Con shampoo e bagnoschiuma in mano entra in piedi nella vasca e rimane lì, nudo e fermo, a guardarsi intorno. Ovunque ci sono cose di Gaya, le sue boccette, i suoi profumi, fili di capelli incastrati nello scarico, un pacco di assorbenti aperto e lasciato in bellavista. Ma soprattutto la cosa che gli ha sempre dato sui nervi: la piastra attaccata alla presa che penzola per una parte nel lavandino.

«Un modo subdolo di farmi fuori, ci scommetto.»

Con uno slancio esce dalla vasca, afferra tutto quello che c’è e lo scaraventa in un sacchetto della spesa.

A questo punto, vuoi per lo sfogo, vuoi per la sigaretta appena fumata, sente l’esigenza di sedersi sulla tazza e lasciarsi andare. Di corsa finisce di defecare, di pulirsi, di lavarsi e rientra in camera dimenticandosi del caos che lo attende. Oggi, primo maggio duemila tredici ore dieci del mattino, alla radio nazionale lo speaker passa in rassegna i cantanti che si esibiranno al concertone in Piazza San Giovanni. Come di consueto, prima gli artisti meno “artisti”, poi tutti gli altri, fino a concludere la serata col grande ospite internazionale. Si adopera a fare dello zapping radiofonico e lascia sintonizzato su una frequenza che trasmette solo musica rock.

Alle tre e dieci del pomeriggio i pacchi di Gaya sono sistemati, il concerto è iniziato da qualche minuto ed il pranzo è stato assaporato con lo stesso godimento con cui si gusta una preda rubata dalla trappola di un felino. Prende lo scooter e pensa che gli piacerebbe fare un giro al mare prima di andare verso Trastevere. Per cui casco in testa, documenti nel giubbotto e chiavi in mano, si accomoda sulla sella nera e morbida del suo vecchio ciclomotore. Oggi la città è un parapiglia incredibile, metropolitana e mezzi di superficie vanno a rilento e la canicola amplifica i disagi. Ma a Giacomo non importa, vuole arrivare lì il prima possibile e mentre sfreccia tra le vie del centro, gli scorrono dinanzi immagini lampo del suo passato e la strada che l’ha condotto a lasciare Gaya.

«Ma dai, in fondo ci amiamo, tutto passerà, è ancora possibile chiamarla e sistemare tutto.»

O forse no. Questa volta non funziona così. Questa volta vuole andare fino in fondo alla sua scelta. Senza quasi accorgersene si trova già sulla Via del Mare. Come ogni anno da quando vive a Roma, il primo maggio lui deve andare ad Ostia. Oggi viene aperta ufficialmente la stagione turistica e lidi, spiagge private e pubbliche, discoteche e un milione di abusivi riprendono a lavorare a pieno ritmo in un mondo dove nemmeno chi ha conseguito tre lauree, dottorato presso la Regina o specializzazione alle Nazioni Unite ci riesce. Loro, gli innominati, sono pronti, ad ogni monetina non data, a lasciare l’autografo sulla fiancata della tua auto. Ma Giacomo, invece, si beffa di tutti e al mare ci va sulle due ruote. Accaldato e con la testa quasi infuocata per via del casco, arriva sulla strada dei cancelli, ma decide di proseguire in cerca di un luogo più isolato dove trovare un po’ di tranquillità. Parcheggia a ridosso della rete e si infila in un sentiero tracciato dai passi sulla sabbia. Poco più in là c’è un chiosco semi deserto e lui ha voglia di birra e patatine. Si avvicina al bancone e siede su uno sgabello, chiedendosi se ci sia qualcuno. Da una tenda sbuca una ragazza mora, alta come la Tour Eiffeil, magra come un compasso e con due tette che fanno il giro del mondo in ottanta secondi, insomma una figa da paura. Come al solito lui non può trattenersi dal fare il piacione e la tipa abbocca al suo seducente sorriso come un’anguilla all’amo d’un pescatore. Battute su battute, si aprono il tanto che basta. Lei spiega che nonostante la crisi ha voluto buttarsi in questo piccolo progetto col fratello prendendo in gestione il chiosco e lui allora le racconta, che crisi a parte, ha voluto chiudere una storia importante perché non si sentiva più preso in modo totalizzante. L’ora avanza e la canicola inizia a scemare, ma l’alcol in corpo invece no. Appena inizia ad arrivare gente Giacomo preferisce andarsene e lasciare la preda agli altri. Rivolge un saluto alla ragazza e si incammina al di là di una piccola duna. Recupera quello straccio di telo da mare che ha riposto nello zaino prima di uscire da casa e si sdraia sulla sabbia con una sigaretta tra le dita e una birra da sorseggiare lenta, mentre il pomeriggio precipita verso il tramonto precoce della primavera. In lontananza, un signore porta a spasso il cane, una ragazza cinese si propone per un massaggio alla schiena, ed una coppia entra in acqua malgrado il caldo non sia ancora così intenso da poter fare il bagno. Saranno dell’est - pensa - ma invece d’un tratto una frase in romanesco si leva in aria suonando come una sirena. A Giacomo è sempre piaciuto questo accento, lo trova robusto e “testosteronico”. Ricorda ancora quando, a diciotto anni, arrivato fresco dal paesello, sentì il suo primo; “ma li morté…” che poi, sul momento, diciamolo, gli sembrò quasi un’altra lingua. Ma solo all’inizio. Bastarono pochi mesi perché anche lui, come la schiera di fuori sede che affollavano l’Università, assorbisse quel modo di parlare. Solo che a differenza degli altri, Giacomo aveva sempre mantenuto una certa ritrosia. A parlare romano venendo da fuori gli pareva di scimmiottare i capitolini veri, di essere un pappagallo che si fa bello a imitare la lingua dell’uomo. Lui invece rispettava troppo quella città, la sua storia e le sue parole che morivano a metà.

«Ma non dovevi venì alle sei?»

Così l’aveva accolto la sua prima padrona di casa.

Cinque del pomeriggio, ultimo piano d’un palazzo di Via Lorenzo il Magnifico. Niente ascensore.

Alla porta s’era presentata una donna sui cinquanta passati malamente, seguita da uno scodinzolante barboncino color miele, anch’esso piuttosto attempato. Per qualche strana ragione gli ricordava la figura di Mamy del film di Celentano il Bisbetico Domato, ma a differenza della governante questa era bianca come un cadavere ed aveva, oltre alla foresta amazzonica sulle braccia, anche dei fusti di pino sulle gambe. Sfoggiando un garbo squisitamente mascolino e un alito che avrebbe ammazzato anche una pantegana del Tevere, lo aveva fatto accomodare in salotto. Mentre parlava delle modalità di pagamento, del contratto che non avrebbe mai stipulato, della non possibilità di avere un qualsiasi arredo all’infuori di quello che già c’era, Giacomo aveva fissato incredulo i bigodini stretti sulla testa, il rossetto rosso spalmato a caso sulle labbra, i calzini da uomo lasciati sporchi in terra, le poltrone unte che regnavano come troni. Stava per alzarsi e sparire senza neanche salutarla quando vide qualcosa che lo trattenne: un terrazzo gigantesco che dava largo spazio alla vista; da un lato tutta la zona della Tiburtina fino alle pendici di Tivoli, dall’altro il centro di Roma con Villa Borghese e la sua mongolfiera turistica. Prese in affitto l’appartamento, strinse la mano alla strega e sulla porta, al momento di congedarsi, venne ricompensato da un improvviso entusiasmo erotico del barboncino color miele che gli si avvinghiò alla caviglia lasciandogli in dosso ogni possibile schifezza che avesse attaccata al pelo.

La coppia sulla spiaggia seguita a giocare con spruzzi e sghignazzi regalati al vento tiepido. Giacomo li osserva mentre scola la sua birra e fuma una sigaretta dietro l’altra. La testa è pesante ma la mente è leggera e fresca. Il vocio scomposto dei bagnanti sulla spiaggia e nei parcheggi si sta man mano trasformando in cheto suono che lascia solo la scia dell’ultima sillaba di ogni parola. Una strana eco, quasi sottovuoto, gli si insinua nell’udito e molto lentamente Giacomo si lascia andare ad un rilassamento uterino. Un’ora dopo, è il trillo di un cellulare troppo vicino a svegliarlo di colpo, strappandolo al suo torpore di sogni e alcol. Seduto sulla spiaggia ormai deserta assapora gli ultimi secondi di silenzio prima di riprendere in mano la sua vita ed affrontare un’altra serata inutile.

Sulla strada verso la capitale ammira le sfumature di colori che si creano di notte, le larghe strade striate dal giallo sfocato dei lampioni, i semafori lampeggianti, le insegne luminose che indicano la direzione anche a chi non ricorda il nome delle vie, i dialetti e le voci che echeggiano lungo i marciapiedi. La vita dovrebbe essere sempre così, pensa. Un lungo scorrere di eventi.

Per andare verso Trastevere, Giacomo fa sempre la solita strada, ma in questa occasione sceglie di dilungarsi; preferisce fare una piccola sosta per un’ultima sigaretta prima di affrontare gli amici del piacere. Parcheggia vicino Ponte Milvio e fa due passi a piedi. Ma vorrebbe che diventassero quattro, otto, sedici, trentadue; insomma passi infiniti che potrebbero evitargli il peso di questa ennesima sterile serata. Si accende una sigaretta e appoggia i gomiti sul grosso cordolo in cemento, ammirando lo skyline romano fatto di luci e alberi. Intorno a lui, complice l’uscita al cinema di un film popolare, il ponte si è riempito di lucchetti di ogni grandezza e colore, con dediche folcloristiche nelle lingue più diverse. E quei lucchetti adesso gli ricordano la storia con Gaya.

Anche quella, come il ponte, si è riempita a poco a poco di serrature, di fantasmi e di tanti, troppi, dettami che non è mai riuscito veramente ad accettare.

«Giacomo mi hai stancata, non trovare scuse, tu non mi ami, punto e basta. Ami solo quella tua bella faccia da stronzo e nessun altro, ma prima o poi ti stancherai anche di ammirarti allo specchio, solo che io non sarò più qui ad accogliere le tue montature. Quando si ama, si ama in tutto quello che l’altro rappresenta.»

La sigaretta di Giacomo questa sera sembra non volersi spegnere mai, o forse è lui che non vuole lasciare quel luogo.

«Si può amare un essere umano alla follia e non riuscire a dimostrarglielo, in nessun modo, facendogli solo del male pur senza volerlo?»

Questa domanda non smette di tormentarlo, insieme ad un’altra: perché è stato così urgente separarsi da Gaya?

Non era più normale sentirsi col cappio al collo, ma con una storia che riusciva almeno in parte a scandire la sua vita, a darle un senso? Non è quello che fanno tutti? E invece adesso, libero com’è, si sente più che mai un animale selvaggio che sbatte contro le pareti di una gabbia senza fenditure.

«Scusi, potrebbe indicarci la strada per arrivare a piedi a San Pietro?»

Una coppia è ferma dietro le sue spalle, e aspetta una risposta. Giacomo un po’ di getto, un po’ per abitudine, appena si riprende dall’irruzione ribatte, che da diversi punti lungo il Tevere - se ci si fa caso - si vede il cupolone, per cui con un po’ di pazienza e delle scarpe meno alte ci si può arrivare senza tediare nessuno; dopodiché li saluta e si dirige verso lo scooter. Mentre ripercorre i suoi due, quattro, otto, sedici, trentadue passi gli arriva una fitta all’addome, per cui si siede sugli scalini che danno sulla strada.