Questo brano costituisce il secondo capitolo del romanzo: La nostalgica fonte, di Angelo Vetturini. Il testo è “Proprietà letteraria riservata” dell’Autore. La pubblicazione di parte di esso su questo sito è stata effettuata con il permesso dell’Autore, che ne ha inviato una copia in formato editabile all’amministratore del sito.

Angelo Vetturini  - La nostalgica fonte  – Cap. 1 - i Ponti di Firenze. 

Erano senza dubbio degli specchi. Con il cenno nervoso di una mano liquidò l’uomo irsuto in veste azzurra aggrappato al volante e il bianco fuoristrada che lo aveva sballottato fin lì: stringendo i denti fino a sentir male si impose di subire il fracasso infernale del motore che lento si estingueva alle sue spalle; poi sorrise beffardo al silenzio, e intanto si aggiustava con dita esagitate il nodo della sciarpa di cotone terrigno, che gli faceva tanto élite da Legione Spagnola sulla snella sahariana verde oliva intrisa di sudore. Ma lo sguardo era fisso.

E non sul tratto di pista rettilinea in lieve saliscendi, che egli avrebbe percorso tra un istante sotto il sole impietoso del primo pomeriggio – per nostra decisione, d’altro canto: inutile stizzirsi –, bensì sulle non poche bizzarrie di quel complesso a dir poco intrigante, che da lontano gli era parso il trapianto di un albergo lussuoso in una delle tante cattedrali in rovina disperse nelle steppe dei paesi d’oriente. Da non troppo lontano, tuttavia. Perché aveva distinto la struttura, e ne era stato scioccato a prima vista, soltanto dopo aver oltrepassato la porta a meridione della cinta muraria, laddove un beduino filiforme, in azzurro anche lui ma scolorito, e con tanto di fucile a tracolla, si era sbracciato in gesti di saluto – che abbiamo disdegnati, chiaramente: lungi da noi blandire la plebaglia.

Ora, forse a duecento passi dalla meta, accavallati in cintura gli occhiali dal filtro brevettato e dalle lenti a goccia di un tenue marroncino, considerava al binocolo da viaggio, con inquieto sospetto, l’insolita dimora che lo avrebbe ospitato. Doveva avere un pozzo di quattrini, il nobil proprietario, e uno spiccato gusto del bizzarro. Perché approvare un simile progetto svelava una curiosa inclinazione tra il grezzo e il raffinato: realistica e ad un tempo fantasiosa, e insieme densa di esibizionismo.

Con un saltello si spostò di lato, giusto per inquadrarsi nell’arcata di ciò che anticamente e senza fallo era stata una porta di enormi dimensioni, e vedersi riflesso – in modo nebuloso, a onor del vero, la qual cosa ci irrita non poco – tra due svelte colonne. Magro com’era, infatti, si distingueva a stento in quella sorta di specchio gigantesco, anche perché veniva a ritrovarsi con le gambe confuse nella scura sequenza della cinta muraria – antiestetico sfondo, per la nostra raffinata eleganza – e con il busto immerso nei bagliori del cielo, tra i quali il biondo panama firmato Montecristi si era quasi dissolto.

Ai lati della porta di enormi dimensioni, da un piedistallo di un ruggine rosaceo – così come vediamo l’intera costruzione, anche nella pur breve gradinata di accesso – sorgevano tre altissime finestre, anch’esse arcuate e rette da colonne, anch’esse chiuse in fondo allo spessore da specchi barbaglianti. Al di sopra, un tetto di tegole di legno color mogano scuro saliva dolcemente per un tratto, poi s’impennava brusco fino al colmo segnato da un travone di lunghezza mai vista, che da un’estremità si sporgeva nel vuoto, con l’altra penetrava il basamento di una cupola argentea luccicante, divisa in ampi spicchi ma senza una lanterna, ed in tutta evidenza edificata sul corpo di un ottagono centrale – siamo pronti a scommetterci la testa.

Perché quanto egli stava osservando, mentre invano cercava di placarsi, era solo una parte del complesso – difatti intravediamo controluce altre attigue muraglie –: il braccio di una chiesa a croce greca, di un’abbazia o basilica, per quanto non grandiosa, restaurata nel mezzo di un’antica città fortificata, di cui sopravviveva una distesa di squallide rovine.

Forse, oltre ad essere molto facoltoso, il nobil proprietario aveva un ingranaggio fuori posto: meglio verificare e stare in guardia. Perché mai segregarsi in una lugubre landa infestata da lupi del deserto – ne abbiamo visti a branchi –, per non parlare di lerci beduini? Lo avrebbe scoperto tra non molto.

E adesso è meglio muoversi, Fernando: non vogliamo ustionarci.

Annuì ai suoi pensieri, il cui flusso scorreva con tanto di erre moscia, che al suo orecchio suonava molto chic; raccolse la bruna valigetta di coccodrillo doc, e si avviò.

Nel procedere a passi esagitati, e ignaro della polvere che andava sollevando, sfilò dalla cintura gli occhiali, se li aggiustò sulla gobbetta del naso; e pur senza l’ausilio del binocolo che aveva mollato, e che gli dava un fastidio del demonio oscillando come un pendolo dal collo, osservò compiaciuto, finalmente, la sua immagine intera ingrandirsi pian piano nello specchio che occludeva la porta di enormi dimensioni, arrivare alla base dei gradini e fare fianco destro, passare quindi, ma solo per metà – quel panama ci sta una meraviglia! –, davanti alle altissime finestre. Proseguì lungo un tratto di muraglia, girò l’angolo segnato da un pilastro, e si trovò nella frescura dell’ombra, giusto ai piedi di un’ariosa facciata.

Ci garba a sufficienza, Fernando, ma è ben lontana dall’entusiasmarci.

Rinfrancato, comunque, posò la valigetta e alzò lo sguardo: il portico d’ingresso – un atrio, insomma; o forse sarebbe più appropriato chiamarlo col suo nome di battesimo... nartece, ci par di ricordare – si apriva con tre archi, di cui il mediano enorme e adornato di fregi, al di sopra dei quali, dal colmo di un frontone triangolare dall’esile cornice, si sporgeva il travone che lo aveva colpito – solo in senso traslato, per nostra buona sorte –: il culmine del tetto.

Era tempo di entrare. Riagguantò la valigetta – in senso proprio, stavolta, ché i guanti di filato sopraffino ci preservano da agenti ed insetti nocivi –; nella deprecabile mancanza di un qualsiasi zerbino batté le suole sul piatto di una pietra che gli stava tra i piedi in tutti i sensi, per scuotere la polvere dai mori stivaletti da parà; diede una mezza volta per porsi in dirittura dell’arco di sinistra, secondo le istruzioni, e avvertì la pressione straripargli: in fondo al porticato, di là dallo spessore della pietra, un ennesimo specchio gli ostruiva l’ingresso.

Come si fa ad entrare in uno specchio! Quella è la nostra porta, santiddio!

Un sospiro e salì: sette gradini.

Al riparo dell’atrio provò a identificare il suo volto riflesso, ma trovandosi in ombra non vide granché; scrutò ancor meglio: c’era, la serratura: invisibile, quasi, ma era lì. Sbuffando frugò in tasca, imprecò alla puntura del fedele cornetto antiscalogna, tirò fuori la chiave – preziosa, secondo le istruzioni, e da portare indosso senza fallo –, al terzo tentativo la inserì e frenò un’ulteriore imprecazione: slittando con il soffio di un fantasma lo specchio si dischiuse. Ma non gli rivelò un ambiente buio come lui si aspettava. Oltre ad essere esteso, e corredato di un pregiato parquet – ne abbiamo la netta percezione –, era in densa penombra, ma intagliata con geometrico stile, su ambo i lati, da spazi successivi di chiarore.

Piantato sulla soglia, i nervi a fior di pelle, Fernando puntò due occhietti infastiditi contro quelle aperture che riteneva, e con ragione, chiuse a fil di muro – la porta di enormi dimensioni e le finestre in cui ci siamo specchiati nel venire, nonché le antecedenti che abbiamo tralasciate –; e stizzito, piuttosto che sorpreso, le vide non solo luminose, sebbene di una luce quasi fine a sé stessa che non sbiadiva affatto l’atmosfera, ma persino riflesse, e ben distanti, nell’opposta, lunghissima parete.

Uno specchio gigante! Più tardi lo indaghiamo, Fernando. Ora è d’uopo accertare in primo luogo un fatto che ci intriga.

Rimuginò tra i denti un paio d’invettive, mollò la valigetta sul parquet: andò alla prima finestra, alla seconda, alla terza, alla porta di enormi dimensioni, alle finestre seguenti, tutte e tre; e con sommo stupore, da cui egli stesso rimase sbigottito, le vide trasparenti sul paesaggio di sole che aveva attraversato: la piana dissestata e densa di rovine, la scura sequenza della cinta muraria, la porta a meridione. Provò ad aprirle: non trovò una maniglia, un chiavistello: era il blocco totale. E non si rese conto, nel frattempo, di quanto accadeva alle sue spalle. Tanto è vero che quando si voltò, deciso a traversare la penombra per portarsi a ridosso dell’opposta parete, s’avvide che qua e là, con lentezza irritante, dei faretti inseriti nel parquet si andavano accendendo.

Nel seguirli con scatti della testa, Fernando ebbe modo di cogliere altresì che la porta d’ingresso si stava richiudendo. E la chiave era fuori! Un’agile corsetta... Troppo tardi! Fu inutile armeggiare: non c’era un chiavistello neanche lì: doveva pazientare suo malgrado fino all’ora di cena. Come se non bastasse, c’era  un dubbio che adesso gli sorgeva facendolo oltremodo indispettire. Se infatti, in virtù di un oscuro marchingegno, gli specchi esterni filtravano il paesaggio, poteva esserci qualcuno oltre lo specchio gigante, appostato a spiarlo. Il nobil proprietario?

Calmiamoci, Fernando, per piacere, e scacciamo certe idee inconsistenti: non è minimamente ipotizzabile che un uomo di tal rango si abbassi ad espedienti medievali: non dobbiamo distrarci.

Flebili e scarse, rilevò indignato tornando ad osservare le luci dei faretti; e tuttavia bastavano, notò, per esplorare intorno. La teoria di colonne alabastrine, tanto per cominciare, che dividendo l’ampiezza dell’ambiente correva su dei plinti appena rischiarati, ed era a stento visibile in altezza, quanto bastava, forse, per non farlo cozzare nei piedritti.

Sospingendo lo sguardo di colonna in colonna, Fernando giunse infine a percepire la parete di fondo. L’avrebbe già notata, si ammonì, se avesse mantenuto un minimo di calma, visto che gli mostrava due aperture, per quanto opacizzate: una porta di altere dimensioni a sinistra del corteo di colonne – che andremo a oltrepassare a tempo debito secondo le istruzioni –, e sulla destra un arco sontuoso guarnito di rilievi, ma impietosamente reciso a metà esatta dalla lunga parete dei riflessi. Il che non era un danno, in fin dei conti; anzi, aveva un sapore coinvolgente. Perché quella parete rimediava allo scempio ricomponendo l’arcata a tutto sesto nel suo specchio gigante, e nel contempo duplicava lo spazio in cui Fernando cercava di orientarsi: l’amplissimo parquet, gli spettri di colonne alabastrine, le lontane finestre.

Altri faretti, intanto, si andavano accendendo. Così Fernando poté intravedere, disposto tra la coppia di colonne in simmetria con la... portafinestra – concordiamo: smisurata che sia, non c’è altra espressione, a questo punto –, un doppio divano corredato di bassi tavolini, dal quale era possibile godere dello stesso scenario, indipendentemente dal lato prescelto: con visuale diretta, se accomodati di fronte al paesaggio filtrato dallo specchio; riflessa, quantunque più lontana e meno chiara, se rivolti all’opposta parete.

Attraversò la teoria di colonne, di slancio proseguì; e solo allora s’avvide di altri arredi, e del loro doppio nello specchio gigante, sotto il riflesso della prima finestra.

Se ne accorse, in effetti, grazie a una tenue lampada da studio, che si era accesa su una scrivania presso un librino posto di sghimbescio, quasi con noncuranza, tra una matita e un blocco per appunti. Lì accanto, una magra poltrona, una scomoda sedia, uno scaffale vuoto di formato ridotto: il tutto di un’essenzialità a dir molto claustrale.

Andò ad accomodarsi in poltrona – scomodarsi sarebbe più calzante, a nostro avviso –; rapidamente portò il librino a sé.

Minimo. Striminzito. Offensivo, perfino: ne siamo esterrefatti. Ben rilegato, sì… in tela bianca di pregio... dorso di pelle nera...  Un omaggio del nobil proprietario? Diamogli un’occhiatina.

Ma tentennò, Fernando; e ne restò seccato: esitare non era da lui. Eppure, avvertiva un non so che di stridente, un controsenso, tra lo spessore insulso del librino e la ricchezza della copertina: ciò lo intrigava e tratteneva insieme. A ben considerare, poi, c’era in più un elemento di mistero – cominciano ad essere eccessivi, è la nostra impressione –: né titolo né autore erano in vista, tanto meno sul dorso. Ma a questo si poteva rimediare. Con l’unghietta del mignolo alzò la copertina: sulla pagina bianca trovò una riga scritta in splendida grafia, inclinata, precisa, chiaroscurata a inchiostro rosso acceso con un pennino dell’età della pietra: Ottant’anni son tanti!

Dedica singolare, se una dedica è. Senza destinatario né una firma, e dal sapore antico. Sarà proprio per noi? Bah! Di gente stramba ce n’è sempre stata.

Voltò pagina, scoprì il frontespizio...

Alfabeto cirillico! Questo è russo, Fernando, santi numi! Ne siamo costernati.

Sfogliò indietro: la dedica, o qualsiasi cosa fosse, era invece in spagnolo, la sua lingua. Il russo sapeva solo leggerlo – sgradevoli ricordi di liceo –, ma non capiva neanche una parola. Provò con l’autore, e a stento vi riuscì: Borìs Ejchenbaum. Ma con il titolo, niente da fare. Edito a Leningrado – fin qui ci arriviamo – nel 1919. E osservò con un senso di fastidio – mai imbrattare le pagine di un libro! – due linee brusche, decise, caparbie, tracciate a penna con lo stesso inchiostro sotto la data e il luogo di edizione: il nobil proprietario – se è nobile, poi, lo accerteremo –  aveva architettato di colmare con un libro non solo irrilevante, ma persino criptato, i vuoti nei pensieri di Fernando per i prossimi giorni.

 Perché questo signore si è burlato di noi? Tutto ciò ha del grottesco, incredibile, assurdo. Dev’essere un gran presuntuoso. Oppure sprovveduto. Infòrmati per bene sui tuoi ospiti,almeno. Vedi poi che succede? L’autore ci è del tutto sconosciuto – magari è pure ebreo, vallo a sapere –: la lingua, non parliamone nemmeno: il profumo di russo ci disgusta; e noi siamo spagnoli, tu lo sai.

Rialzò gli occhietti, e di nuovo notò con sua sorpresa – e molta irritazione: questo continuo, lento stillicidio di continue scoperte sta mettendo a dura prova la nostra lacunosa tolleranza – altri particolari del mobilio, che erano stati certo rischiarati, sebbene debolmente, mentre era intento alla pur breve lettura. Si trattava di un letto basso e sobrio nell’angolo di fondo, là dove la lunghissima parete ricomponeva la metà dell’arcata e il suo riflesso, e di un comodino con una fioca lampada da notte  –  che ci ricorda tanto un cimitero –, e con un altro oggetto indistinguibile da lì, un soprammobile nero, posto sotto il pallore della luce.

Ma le sorprese, così le irritazioni, non erano finite. Di colpo, infatti, da due punti che non poté intuire, lì per lì, ai fianchi di un possibile architrave sul corteo di colonne, vide espandersi verso l’alto una luce soffusa, che pur lasciando il parquet nella penombra gli svelava la salita di un soffitto a capriate e il suo doppio rispecchiato in discesa: puntoni, monaci e saette, per non parlare di catene e staffe. Era un soffitto dal duplice andamento, ad essere precisi, diversamente inclinato sulle parti in cui l’ambiente si trovava diviso, e che seguiva – ci sembra lampante – il profilo del tetto.

Quale spreco di spazio! Perché, Fernando, diciamola com’è: qui, in un certo senso, è stato riservato ad ogni ospite un braccio della chiesa a croce greca che abbiamo rilevato al nostro arrivo. Chiesa ormai non è più, siamo d’accordo. E di un braccio, in effetti, ciascuno utilizza la metà, anche se gli è visibile l’intero grazie all’inganno – o abbaglio, se vogliamo – di quello specchio immane. Come si può arrivare a costruire uno specchio di tali proporzioni? Con i soldi, Fernando: con un mare di soldi.

Ebbe un ghigno impregnato d’amaro: ora aveva l’assoluta certezza circa il quadro del nobil proprietario: un esteta esigente, pignolo, con doti spiccate di ideazione e ancor più di controllo – i suoi rapporti con quel povero architetto devono essere stati più arruffati di quelli tra il fiero papa Giulio e il tosto Buonarroti –, ma fin troppo superbo, arrogante, di conseguenza antipatico all’eccesso, coi suoi programmi e con le sue  istruzioni. Da ciò era agevole dedurre che in quella residenza vi sarebbero stati, per una settimana, almeno due soggetti di identiche virtù ma di opposta natura: scontri e scintille in vista. Perché Fernando, paradossalmente, si riteneva un gran simpaticone.

Bando alle digressioni, adesso: dobbiamo organizzarci. Dunque: i bagagli saranno già arrivati, e tutto sarà stato sistemato secondo i piani del nobil proprietario. Ma l’occhio del padrone... Andiamo a controllare.

Prese la valigetta, seguendo le istruzioni fiancheggiò la parete delle false finestre, e a pochi passi dal fondo trovò, non senza difficoltà per la penombra, una porta scorrevole in cristallo d’intenso color rame – così ci è stata descritta –, che al suo tocco si aprì con un soffio ed accese una luce discreta in un modesto locale: una chiocciola di mogano scendeva, e la parete di fronte, in cristallo ugualmente ramato – lo possiamo vedere, a questo punto –, divideva il ridotto disimpegno da un attiguo... chissà.

Ora diamoci una mossa, Fernando: puntuali e precisi è il nostro motto.

Quando risalì dopo ventotto minuti controllati al suo Rolex d’oro bianco, Fernando, fresco e profumato, in vestaglia di seta con blasone e iniziali, si sentiva come nato di nuovo, pronto ad affrontare le avventure più ardenti e dissolute che l’ingegno sovente gli ispirava. Si accomodò sul divano rivolgendosi alla portafinestra: notò con un certo disappunto che il sole calante adombrava lo squallido paesaggio più in fretta di quanto si aspettasse; nell’attesa della cena, che gli avrebbero servito puntualmente, secondo le istruzioni – il che ci fa oltremodo scompisciare, conoscendo la fumosa vaghezza, per usare garbato eufemismo, con cui in oriente si osservano gli orari –, decise di dare un altro sguardo al biglietto d’invito, in quanto lo trovava deferente, persino raffinato: come dire di no? Lo estrasse di tasca, lo aprì, e con due occhietti infervorati lesse:

Eccellentissimo e Illustrissimo Duca,

Nella località di cui Vi allego la mappa, ho appena restaurato un rudere di pregio dove intendo trascorrere il resto dei miei giorni.

Per l’inaugurazione della mia nuova residenza, ho pensato di invitare personaggi di rango, e di assistere con loro all’eclissi di luna che si annuncia imminente: sono figure che ho scelto per le loro distinte qualità, e delle quali godrò la compagnia per sette giorni.

Mi auguro che Voi, ultimo rampollo di un lignaggio che ha lasciato un’impronta nella storia di Spagna, Vi degniate accettare questo invito: ne sarei onoratissimo.

A tal uopo, mi permetto di unire alla presente l’elenco degli ospiti e le loro referenze, alcune istruzioni indispensabili a rendere gradevole il soggiorno, e i necessari documenti di viaggio.

Nell’attesa di incontrarVi, Illustrissimo Duca, mi dichiaro della Vostra Eccellenza un  profondo e sincero ammiratore...