Questo brano è l’inizio del romanzo “La vendetta di  Giosuè Zerrin”, di Giancarlo Bufacchi. Il testo è “Proprietà letteraria riservata” dell’Autore. La pubblicazione di parte di esso su questo sito è stata effettuata con il permesso dell’Autore, che ne ha inviato una copia in formato editabile all’amministratore del sito.

Dieci anni fa moriva Giacomo Tirsini.

Abitava in vicolo della Santa Unione sin dalla nascita. Morì che non aveva ancora trenta anni.

 

Quel giorno, era il 17 di Maggio, un Martedì , per la massima parte della gente del tutto privo di importanza, sentii la sirena della macchina dei Carabinieri poi, mentre il suono si spegneva ,lo stridore della frenata. Mi affacciai alla finestra del terzo piano. Vidi il Maresciallo  Pizzi ed un militare che non riconobbi, schizzare fuori dalla Punto come se avessero il fuoco alle spalle. Corsero verso il vicolo troppo stretto per qualsiasi auto. C’era gente sia sullo slargo sotto casa che nella viuzza. Tutti si accalcavano  e sembravano agitati.

Si affacciò anche l’infermiera che era venuta a preparate la flebo per mia madre. Chiese, senza alzare gli occhi dal suo lavoro, che fosse successo. Risposi che non ne sapevo nulla. Avranno litigato – disse lei scrollando le spalle – quei due vecchi..

I vecchi cui alludeva erano sposati da  quasi sessanta anni e da almeno cinquanta si lasciavano andare a scenate rumorose quanto innocue. Lei accusava il marito delle più improbabili avventure sessuali e lui si metteva ad urlare dandole della matta. Solo un paio di volte era finita a bastonate. A prenderle era stato lui e la faccenda aveva divertito metà della popolazione di Rocca Citrina. Ripensare  quella vecchia storia  mi fece bene. Per qualche minuto dimenticai la malattia ed i problemi quotidiani .

La distrazione durò poco. Chiusi la finestra. Anche mia madre  chiese che fosse successo. Scossi la testa. Le raccontai dell’arrivo del Maresciallo e della gente che, per  la piccolezza del paese  era una vera  folla. L’infermiera infilò l’ago in vena, delicatamente. Era brava. Mia madre,  buona di carattere e sempre grata  verso chi l’aiutava le sorrise. Io guardavo il quadro  grande; quello con il mare calmo, il faro bianco e rosso che si stagliava contro il tramonto. Sembrava una finestra aperta sul mare. Avrei voluto essere il quel posto sconosciuto piuttosto che in casa  al numero cinque del Largo di Santa Unione, tra la cappellina duecentesca che dava il nome al luogo ed il magazzino di ferramenta ed attrezzi agricoli di Elenio.

Mi affacciai di nuovo attirato dal vocio crescente. La gente era aumentata.

C’era un bel sole quella mattina. Le ombre erano corte. Da poco passato mezzogiorno- pensai  e verificai sull’orologio – ci vorranno almeno cinquanta minuti per la flebo. Mia madre aveva socchiuso gli occhi. Non sorrideva più ma sembrava rilassata. Non riuscii a chiederle come si sentisse. Passarono i minuti. Come sempre, durante le seduti di chemio, furono snervanti. Alle dodici e venti sentii una seconda sirena. Sembrava lontana ma il suono crebbe. Capii che  una altra auto fosse in arrivo.  Quando l’ululato divenne frastuono  mi affacciai per la terza volta. Scoprii che si trattava di una ambulanza, una croce blu. Si fermò dietro alla Punto dei Carabinieri. Gli infermieri scesero per spalancare gli sportelli posteriori. Sembravano procedere al rallentatore. Dissi all’infermiera che sarei sceso. Lei rispose che andassi pure. Restava per tutto il tempo. Sorrise. forse per nascondere un disagio . Scesi le scale in fretta.

La piazzetta era ancora affollata. Seguii con lo sguardo gli infermieri che spingevano la barella. Dovettero farsi largo  quando raggiunsero il punto in cui il vicolo Della Santa Unione si allargava progressivamente fino a tentare di essere una strada normale. Giacomo Tirsini  abitava un poco più giù, su uno slargo modesto che però a causa della ristrettezza della via  che lo precedeva  appariva più grande del reale. Ascoltai strani commenti. Qualcuno parlava a voce troppo alta di cosa orribile, altri di cosa spaventosa. Mi feci avanti. La voce del Maresciallo superò ogni suono. Gridava di andare via, di liberare la strada. I compaesani cominciarono a sfollare brontolando contro le pretese dei Carabinieri. Io premetti il pulsante del campanello della casa di Giuseppe Petranucci. Lo avevo visto affacciato. Guardò in basso e mi fece cenno di salire. Spinsi il portoncino. Andai su carico di angoscia. Avevo visto, intravisto, uno strano oggetto, una sorta di grande involto in cima alla recinzione che divideva il giardinetto , non più largo di due metri, dalla facciata della  casa di  Giacomo. Sembrava una tovaglia di quelle grandi che coprisse con i suoi disegni a fiori rossi e blu  un sacco od un cuscino sformato .Era un ammasso che metteva paura.

Salii i quarantaquattro gradini di corsa. Giuseppe spalancò la porta. Aveva la faccia  terrea. Arretrò e come per frenarmi agitò entrambe le mani con i palmi in avanti.

“Madonna  mia , Giosuè! Madonna..”

Poi mi prese per il braccio e mi portò alla finestra. Avevo visto bene ma non avevo capito. Affacciato capii. Giuseppe aveva versato del vino rosso. “ Bevi.” Obbedii ma non servì a nulla. La grande tovaglia, dalla finestra del secondo piano si vedeva bene . Copriva un corpo infilzato sulle lance della recinzione. In terra era rosso. Una quantità di rosso che non avevo mai veduto. Un rosso che si allargava lentamente.

Cominciai a tremare. Bevvi un secondo bicchiere d’un fiato. Non volevo sapere. Giuseppe disse che era  Giacomo. Cascato dal tetto- aggiunse.

Scesi le scale a precipizio. Presi di petto il Maresciallo che non si aspettava la mia intrusione. Mi gridò di andare via. Gli gridai più forte che bisognava avvertire la moglie. Non ci aveva pensato. Urlai che lei non lo doveva vedere in quelle condizioni.   Il maresciallo quasi mi sbatté al muro.

“Lei sa dov’è?”

“A scuola.. insegna alle elementari.. giù al Poggio Bigio.”

Telefonò e diede disposizione che la signora Tirsini  fosse tenuta lontana da casa sua. Poi ordinò che me ne andassi. Tornai al secondo piano. Tanto io che Giuseppe eravamo presi da una specie di curiosità morbosa. Ero combattuto tra  due necessità contrastanti. Vinse quella che mi spingeva ad osservare su quella che  mi chiedeva di scappare via e scordare subito..

I portantini se ne andarono con la loro barella inutile. Sulla via non c’era più gente. Al Maresciallo ed al carabiniere si era aggiunto un appuntato che conoscevo bene. Il sangue  non si allargava più.  Affacciati alle finestre erano tre uomini anziani e sei o sette donne. Sembrava un film.  Prima che arrivasse qualcun altro passarono due ore. Noi avevamo svuotato una bottiglia ed intaccata una seconda. Non potevo star lontano dalla finestra. Quando vidi  l’uomo alto e magro, dal portamento eretto e dal passo rapido immaginai che   fosse il magistrato di turno.

Era accompagnato da poliziotti in borghese. Un paio impugnavano macchine fotografiche. Giuseppe si ritrasse dalla finestra. Io no.  Il lenzuolo a fiori, macchiato di rosso fu sollevato e rimosso. Giacomo era stato trafitto e lacerato da tre  ferri a punta di lancia che lo avevano trapassato .

Spuntarono delle sedie. Su di una salì il magistrato. I fotografi scattavano da tutte le angolazioni possibili.

Giuseppe disse piano che Giacomo era caduto dal tetto. Lo disse tre volte.

“L’ hai visto?”

“Stava regolando l’antenna. Gli ho pure detto di stare attento. L’ho visto venire giù ma non ho guardato in basso. Ho sentito il rumore.. il rumore. Dio mio..”

“Lo devi dire al Maresciallo.”

“Noo!!”

“Come no. Devi. “

“Non lo so.”

Era pallido. Sembrava indebolito.

“Andiamo giù.”

Lo costrinsi. Stetti da parte mentre parlava col Maresciallo e col magistrato. Mi accorsi che tremava un poco. Io pensavo a mia madre che doveva essere rimasta sola ma non me ne volevo andare. Conoscevo bene tanto Giacomo che la moglie. Ero confuso, addolorato ma anche attratto dalla tragicità della scena.

Dopo il colloquio tornammo in casa. Giuseppe raccontò che il Maresciallo lo aveva convocato in caserma per il giorno seguente.

Telefonai a casa. Rispose zia Elisa. Mi rassicurò. Era arrivata presto. Mamma aveva mangiato a sufficienza e dormiva  tranquilla. Le dissi che sarei rientrato tardi. Non le accennai nulla della tragedia.

Erano quasi le sedici quando Giuseppe preparò un paio di panini. Bevemmo ancora vino. Parlammo poco. Mi chiese da quanto conoscessi Giacomo. Raccontai sommariamente della nostra amicizia che risaliva agli anni  dell’infanzia. Ero in vena di confidenze e spiegai che un tempo  avevo preso una cotta  per Simonetta.

Giuseppe mormorò che non ero il solo. Anche secondo lui Simonetta piaceva a tutti.

Nella strada c’erano ancora i Carabinieri ma non il magistrato. Il cadavere era stato ricoperto malamente dalla tovaglia. Il sangue scuriva. Sotto ad un velo di segatura che qualcuno gli aveva versato sopra faceva meno impressione. Sembrava tutto fermo o perlomeno rallentato. Probabilmente stavano accadendo cose che non vedevamo. Pensavo a come l’avrebbe  presa la moglie e speravo che non dovesse vedere quello scempio.

Alle sedici e trenta ci furono strani rumori. Ci affacciammo. Sull’acciottolato  era sta deposta una cassa funebre grigia. Forse di plastica. Era arrivata la Polizia Mortuaria.  I tre uomini sembravano perplessi. Capii che non sapevano come  liberare il corpo di Giacomo dalle lance della recinzione. Uno disse forte che ci volessero delle scale. Il Maresciallo era scomparso. Un Appuntato presidiava la zona. Il cancello di casa Tirsini che dava sulla via era spalancato.

Giuseppe disse che lui una scala ce l’aveva. Chiamò gli uomini della Mortuaria e li avvertì. Scendemmo portando l’attrezzo.

Ringraziarono. Ebbi la forza di guardare da vicino il cadavere. Non provai la minima emozione. Pensai  o forse sperai che Giacomo fosse morto sul colpo e che non avesse sofferto. La testa era piegata verso il basso in maniera innaturale, Gli occhi spalancati erano rivolti verso il cielo, le braccia aperte una verso la via e l’altra verso il giardinetto. Le gambe pendevano entrambe all’esterno. Le punte a forma di freccia uscivano due dal torace e la terza dal ventre. Pensai che sarebbe stato difficile sfilare il corpo da quei ferri uncinati. Gli uomini della Mortuaria lo dissero. Quello che era salito sulla scala scuoteva la testa  mentre cercava di smuovere il corpo. Scese e disse ai colleghi di provare.  Entrambi affermarono che se avessero insistito avrebbero praticamente squartato il morto.

Il Maresciallo ricomparve. Era evidentemente stanco e nauseato per la giornata.

Mi chiese che ci facessi lì. Spiegai. Volle i documenti malgrado mi conoscesse bene e mi convocò in caserma. Ero aspettato per il pomeriggio seguente.

Giuseppe prese l’iniziativa. Affrontò Carabinieri e Agenti in maniera decisa.

“Così non lo potete levare! Con le alette delle punte rivolte in basso  lo massacrate. E che cazzo!!”

Fu guardato male anche se tutti erano dello stesso parere. Il Maresciallo propose di imbragare il morto con delle corde e tentare di sollevarlo tirando dalle finestre del primo piano. Giuseppe  divenne paonazzo. Ripeté l’insulto poi disse che l’unica maniera per togliere quelle spoglie martoriate senza  provocare ulteriori danni fosse tagliare l’inferriata. Lo guardarono come se avesse scoperto la vera origine dell’universo. Il Maresciallo mandò l’Appuntato a chiamare il fabbro.

 Costui arrivò alle cinque e mezza. Aveva con se un grosso frullino ed un lungo cavo elettrico. L’appuntato portò un capo entro casa. Quando uscì il fabbro aveva cominciato a lavorare. Tagliò  prima la sbarra di colmo sulla quale premeva il corpo  in modo da svincolare cinque lance dal resto della struttura. Poi tagliò i fusti. Quando la quinta lancia  fu intaccata per la metà  cominciò il piegamento.

Lentamente Giacomo venne giù assieme al ferro che lo trapassava.

Mi allontanai  mi girai vero il muro.  Ebbi un conato di vomito. Dal ventre lacerato usciva qualcosa che mi rifiutai di identificare.

Quando mi ripresi Giacomo giaceva nella bara  di plastica grigia . Non c’era il coperchio. Lo portarono via con difficoltà attaccato alla sezione di recinzione. Sembrava che trasportassero un animale preistorico dalle grandi punte dorsali,  Solo quando furono all’imbocco della strettoia l’appuntato si ricordò di coprirlo con un telo di plastica scura.

Aiutai Giuseppe a riportare su la scala  poi tornai a casa. Ero stravolto. Le gambe reggevano a malapena.

Mia madre era ancora assopita. Raccontai quel che era successo a zia. Evitai  però la descrizione del corpo.

Alle sedici del giorno dopo ero seduto alla scrivania del Maresciallo. Nella stanza  poco illuminata eravamo in quattro. C’erano un Brigadiere di nome Rossi ed un militare seduto davanti alla macchina per scrivere.

Il Maresciallo volle che raccontassi quel che avevo visto. Lo feci ed ovviamente lo delusi. Non fornii nessun elemento che  potesse aiutare a capire la dinamica dei fatti.

“Sono arrivato dopo di lei. C’era già la tovaglia. Poi sono salito a casa di Giuseppe Petranucci. Le ripeto che non so altro.” “Da quanto lo conosceva?” “Dalle medie.”

“Secondo lei aveva un motivo per ammazzarsi?”

“Per me no.. ma non si può mai dire. Che io sappia il lavoro gli andava bene ed era innamorato della moglie.”

“E la moglie?” “Credo lo stesso.” “La conosce bene?”

 La domanda mi infastidì .Risposi che i miei rapporti fossero di amicizia  nemmeno tanto stretta. Ero amico del morto, ribadii. Volli essere sincero e raccontai che prima che si sposassero ci avevo fatto un pensierino su Simonetta Lelli. Ma non c’era stato nulla. Lei aveva scelto Giacomo. Poi chiesi come l’avesse presa. Domanda stupida ovviamente  ma  , piuttosto che sparami una battuta ironica ,  il Maresciallo spiegò che la donna ,  sconvolta ma lucida , era a casa dei genitori ed era stata visitata dal dottore. Aggiunse che si sarebbe aspettato  qualche giorno per il riconoscimento del  morto .

“ L’autopsia tarderà. Dall’istituto mi hanno fatto sapere che lo hanno liberato dalle lance.”

“Vorrei andare a trovare la moglie.”

“Nulla glielo vieta. Ma prima chieda ai genitori. A presto, signor Zerrìn .”

Tornai a casa. Zia era stanca. Le dissi che doveva andare a casa sua e riposare. A mamma ci pensavo io.

Più tardi preparai un po’ di cena. Lei mangiò svogliatamente. Chiese cosa fosse successo. Raccontai con delicatezza. Lei non parve  addolorata. Eppure conosceva bene Giacomo. Capii che l’idea della morte non la spaventasse come un tempo e che stesse accettando il suo destino.

Quando la misi a letto mi augurò la buona notte. Non sorrise.

La mattina ricevetti , del tutto inattesa, la visita del Maresciallo. Sembrava che  non volesse parlare della morte di Giacomo. Domandò come stesse mia madre. Preparai il caffè.

Gradì. Poggiata la tazzina sul tavolino mi chiese dove fossi prima di arrivare davanti casa del morto.

“Ero qui.” “Solo?” “Con mia madre e l’infermiera. Sa; per la chemio..”

“Come si chiama l’infermiera?   Dove la trovo?”

Scrissi cognome e telefono su un post it. Ringraziò ed andò via scuro in volto.

Mentalmente lo mandai a farsi benedire.

Nel pomeriggio, approfittando come sempre della presenza di  zia cosi a casa di Giuseppe.

Lo trovai innervosito, il che era un avvenimento raro, e  perplesso. Non ebbi il tempo di raccontare della strana visita del Maresciallo perché , anticipandomi, mi fece una dettagliata cronaca dell’interrogatorio subito da lui in caserma.

Venni quindi a sapere che i Carabinieri  avevano insistito molto  nella analisi della deposizione  su quel che   aveva visto della caduta di Giacomo .

“ Ci siamo tornati su venti volte. il Maresciallo mi chiedeva cosa stesse facendo sul tetto. Poi se avevo visto qualcuno vicino a lui, se mi era sembrato che perdesse l’equilibrio per un passo falso o per lo spostamento di una tegola, se  aveva cercato di aggrappasi a qualcosa.. la grondaia per esempio, se avesse urlato. E poi se fosse venuto giù di testa o di gambe. Mi ha chiesto se tu fossi presente prima che lui cadesse. Non ti ho notato, prima.”

Confermai che ero arrivato dopo i carabinieri, che lo avevo visto affacciato e per questo avevo suonato. Poi domandai se immaginasse il motivo di quelle domande su di me.

Rispose che non ne aveva idea.

Versò il solito vino rosso. Mi ci stavo abituando. Bevemmo un poco.

“Che hai visto esattamente?” “ Pure tu?” “ Pure io.”

“Vabbè! Che ho visto? Stava sul tetto vicino al camino .. quello grande  dove c’è la staffa che regge l’antenna. La stava orientando. Immagino, oppure stava sistemando  il cavo. Lo vedevo bene perché era di fronte alla finestra. Gli ho gridato di stare attento e di legarsi al camino. Ha fatto cenno che era tutto a posto. Mi sembrava che sorridesse.  Poi ha ricominciato a far qualcosa all’antenna. Trafficava colla scatoletta dell’amplificatore.

All’improvviso s’è staccato. È scivolato sulle tegole ed è venuto giù. Come non lo so. Ho chiuso gli occhi per l’impressione. Poi ho sentito il rumore. E purtroppo ho guardato. Mi consola solo che non si muoveva. Secondo me è morto sul colpo per i ferri e forse anche per la rottura delle vertebre. Hai visto anche tu che posizione..”

Ammisi di essere  dello stesso parere.

Continuammo  a bere lentamente per una mezzora tanto per far passare il tempo. Mi chiese come andasse con mia madre. Scosse la testa quando  spiegai che   non sarebbe durata molto  che soffriva anche se gli antidolorifici le  davano un qualche  sollievo. Poi parlammo un poco di Simonetta e dei genitori. Mi sconsigliò di andare a trovarla.

“Perché?” “Prima che si sposassero tu le stavi dietro. Sai com’è la gente. “

“Me ne dovessi fregare?!”

“ Il Maresciallo sta cercando il pelo nell’uovo. Sbaglio o una volta litigaste tu e suo nipote proprio per Simonetta?”

“Ma andassero tutti a farsi fottere! “

Sbattei il bicchiere sul tavolo della cucina e me ne andai in fretta. Improvvisamente ero furioso contro tutto il mondo ma in particolare con i Carabinieri.

Passarono due giorni. Incontrai l’Appuntato Vincenzo Rossi.  Era fuori servizio ed in borghese. Capitava che qualche volta scambiassimo quattro chiacchiere. Lui Juventino ed io laziale ma entrambi di origini venete, non mancavamo di prenderci in giro per le reciproche avventure e sventure calcistiche. Quella volta non parlammo di pallone e della Roma  nemica comune. Gli chiesi a che punto fosse quella triste indagine. Davanti ad bianco secco che andava giù come una meraviglia, si sciolse dalla iniziale reticenza. Secondo lui tanto il Maresciallo che il magistrato – me ne confidò il nome che ora dopo tanto tempo, non ricordo – erano del parere che si fosse trattato di un tragico incidente.  Pareva – aggiunse – che il morto non avesse nemici, che il lavoro dell’agriturismo andasse benino e che i rapporti con il socio fossero più che buoni. Secondo lui non aveva motivo per suicidarsi perché si diceva che anche con la moglie filasse  tutto  nel migliore dei modi.

Tanto per mantenere viva la conversazione sottolineai che la moglie era una donna splendida, innamorata e sicuramente fedele. Mi guardò  con l’espressione di chi abbia dei dubbi o comunque delle curiosità da soddisfare. Quel ‘dicevano’ era stato rivelatore di una incertezza.

“ Non ne sei convinto?”

La domanda lo sorprese. Capii che non lo fosse . Si irrigidì. Ridacchiai un poco- era tutta scena- e lo sorpresi nuovamente.

“Il Maresciallo ha fatto cenno a quando io e suo nipote litigammo? Tutti e due innamorati di Simonetta. Tutti e due neanche minimamente presi in considerazione. Fu l’anno prima che lei sposasse Giacomo. Ci rimediai anche un cazzotto da quel cretino. Ma io ero amico di Giacomo e sono stato contento per quel matrimonio. Poi sono diventato amico anche di Simonetta. Solo amico. Magari il tuo capo pensa che io abbia fatto cadere quel poveretto per avere via libera.. È così?”

“Ma no. Ormai è provato che quello era solo sul tetto. Una imprudenza stupida.

Già è salito con una scala a pioli che era mezza rotta.. poi.. e poi la casa era chiusa da dentro. Tre mandate. Le chiavi le aveva in tasca il morto. Abbiamo girato tutte le stanze. Non c’era nessuno  non poteva esserci nessuno per via della serratura  chiusa con tre mandate.”

“E se qualcuno aveva  un secondo mazzo? Meglio un terzo, dato che la moglie doveva avere il suo. Un terzo mazzo, un intruso, una spintarella.. poi nella confusione quello esce e chiude da fuori.”

Scosse la testa. Negò la possibilità. Il testimone, il signore della casa di fronte , era stato chiarissimo . Secondo lui nessuno era uscito da quella porta.

Volli sapere quando sarebbe stata fatta l’autopsia. Mi disse che probabilmente era stata già effettuata.

In quel momento decisi che dovevo vedere Simonetta. La mia era una assenza ingiustificabile.

Non mi fu possibile muovermi di casa per due giorni interi. Mia madre ebbe una crisi  molto forte. Il dolore la squassava. Il dottore le somministrò qualcosa per iniezione. Andò meglio ma ...