La ragazza del tram
Ogni volta che ho visto una donna che mi piaceva ho sempre cercato di conoscerla, ma soprattutto di farci l’amore. Sono pochissime quelle che mi piacevano e che ho lasciato stare. Perché avrei dovuto?
La ragazza del tram era una di queste. L’ho sempre preservata da me. Non è stata una scelta, è andata così. Non ho mai capito se era lei a condizionare il mio comportamento o se ero io che stavo cambiando. Per circa due mesi ci siamo incontrati sul tram tutte le mattine. Era un appuntamento fisso. Io sono socio, insieme ad Alessandro, di una tipografia. Stampiamo cataloghi, libri a piccola tiratura, dépliant, brochure, volantini pubblicitari e alle ultime elezioni anche materiale elettorale di entrambi gli schieramenti: abbiamo solo cambiato il colore, per il resto non c’era una grande differenza. I politici parlano sempre di un futuro migliore. Forse si riferiscono al paradiso.
Ho iniziato qualche anno fa lavorando come dipendente da lui, poi sono entrato in società. È un po’ antipatico da dire, ma sono una persona che riesce in tutto quello che fa. Se mi prefiggo un obiettivo, difficilmente non lo raggiungo. Il motivo è semplice: tutto ciò che mi ha penalizzato nei rapporti sentimentali mi ha invece facilitato nella vita professionale. Per questo, in realtà, più che riuscire grazie a un talento, riesco per una mancanza. L’incapacità di gestire un’emotività fragile come la mia mi ha costretto a dedicarmi totalmente al lavoro. Sentimentalmente sono sempre stato un uomo difettato. Nel lavoro ho trovato il mio rifugio. Avevo un’arma in più, non ero mai distratto dall’innamoramento. Ho sempre avuto la convinzione di possedere l’assoluto controllo della mia vita e dei miei sentimenti, e così ho sempre pensato che l’avrei vissuta.
Ho lavorato anche all’estero. Soprattutto da ragazzo. È a Londra che ho imparato ad andare al lavoro con i mezzi pubblici.
L’incontro quotidiano con la ragazza del tram era una delle cose più emozionanti delle mie giornate. Il resto scorreva come sempre. Quei minuti sul tram erano limpidi, una finestra su un altro mondo. Un appuntamento colorato.
Nessuna persona che facesse parte della mia vita, o semplicemente della rubrica del mio telefonino, aveva la possibilità di emozionarmi più di quella misteriosa sconosciuta. Ero attratto da lei. Ma, pur provando una sincera curiosità nei suoi confronti, non mi sono mai avvicinato.
Quell’inverno, tutte le mattine, quando prendevo il tram per andare al lavoro, trovavo lei già seduta. Sembrava una nuvola. La ragazza del tram doveva avere più o
meno trentacinque anni. Quando il tram arrivava alla mia fermata, prima di salire, mi mettevo in punta di piedi e allungavo il collo per controllare se lei c’era. Se non la vedevo aspettavo quello dopo. Nonostante questa piccola attenzione, talvolta è capitato di viaggiare senza lei.
È stato in quei giorni che ho iniziato a svegliarmi prima della sveglia. Se non la vedevo sul tram non volevo avere il dubbio che fosse già passata, per cui alla fermata andavo prima del solito orario.
Mi capitava spesso durante il giorno di fantasticare su di lei, ma soprattutto su di noi. È bello avere una persona sulla quale fare delle fantasie durante il giorno. Anche se è sconosciuta. Non so perché, ma quando pensavo a lei i miei pensieri non avevano mai il punto. Solo virgole. Erano una valanga di parole e immagini senza punteggiatura.
Mi faceva compagnia. Eppure il nostro rapporto era fatto solo di sorrisi appena accennati e piccoli sguardi muti.
Scendeva due fermate prima della mia. Ho avuto spesso la tentazione di seguirla, per scoprire qualcosa in più su di lei, ma non l’ho mai fatto. Non ho nemmeno mai avuto il coraggio di sedermi al suo fianco. Restavo distante il giusto, in base ai posti liberi e a una buona prospettiva. Giorno dopo giorno, ha allenato i miei occhi a guardare di traverso. A volte, quando era lontana e non volevo girare la testa verso di lei, la seguivo con lo sguardo di sbieco, e dopo un po’ gli occhi mi facevano male. A volte invece il tram si riempiva e capitava che una persona in piedi si mettesse proprio tra noi, impedendomi di vederla. Non passavo tutto il viaggio fissandola, mi piaceva semplicemente osservarla, distrarmi e poi appoggiare nuovamente lo sguardo su di lei. Sapere che era lì mi rassicurava. Il posto migliore dove sedersi era di fianco all’uscita. Se quel posto era libero, per me era una giornata fortunata, perché quando lei si alzava per scendere era costretta a venire verso di me e mi salutava sempre con un sorriso. Se non mi sedevo e rimanevo in piedi era ancora meglio: in quel caso stavamo vicini, l’uno di fianco all’altra, per qualche secondo. La respiravo. Era come l’aria di montagna quando apri la finestra al mattino. La respiravo da vicino senza poterla toccare. “Forse un giorno” mi dicevo. Un piccolo tocco, una volta, c’è stato. Una mattina, mentre aspettava che la porta si aprisse, il tram si è fermato in maniera brusca, e lei si è mossa verso di me. Il suo cappotto e la mia mano per un secondo si sono toccati e io l’ho chiusa in un piccolo morso. Fosse stato per me, l’avrei trattenuta per sempre. Anche lei a volte mi guardava quando era seduta.
Capitava spesso che i nostri sguardi si incrociassero, la nostra era una complicità tacitamente dichiarata. Ho avuto spesso paura che quegli sguardi e quei sorrisi che mi regalava fossero solamente frutto di una buona educazione.
Scriveva. Lo faceva spesso. Scriveva su un quaderno arancio con la copertina rigida.
“Chissà cosa scrive? Chissà se ha mai scritto qualcosa di me?” mi chiedevo.
Mi piaceva vederla scrivere. Innanzitutto perché per farlo si toglieva i guanti e poi perché si vedeva che era totalmente immersa in ciò che faceva. Tanto che ne ero persino geloso. È vero che quando scriveva non alzava mai la testa dal quaderno durante il tragitto, ma vederla così coinvolta in ciò che scriveva la rendeva ancora più affascinante. Avrei voluto far parte di quel suo mondo.
Anche quando leggeva non si distraeva mai. Per farlo si metteva gli occhiali. Le stavano bene. Mi piaceva osservarla mentre infilava un dito sotto la pagina destra e, facendolo scorrere, la sollevava dal resto del libro. Era un gesto naturale, ma mi catturava, era pieno di tutta la sua delicatezza.
A volte, invece, sempre con il dito destro si arrotolava un ciuffo di capelli.
La ragazza del tram era bella. Mi piaceva il suo viso, mi piacevano i suoi capelli, lisci, scuri, tanti. Il suo collo, i polsi e le mani. Al dito portava solamente una piccola fede. Niente anelli o braccialetti. Solo una piccola fede. Ma la cosa che mi attirava di più erano i suoi occhi, quello che si vedeva dentro incrociandoli anche solo per un istante. Scuri, profondi, inevitabili.
“Ci si può innamorare di una persona che non si conosce, ma che si vede solamente nel quotidiano tragitto di un tram?” mi chiedevo in quei giorni. Non lo so. Non lo so nemmeno adesso. Non ero innamorato. Ero attratto. Posso però dire con assoluta certezza che mi sentivo in qualche modo legato a lei, e che è stato facile fantasticare sul fatto che il destino stesse giocando con me. O addirittura con noi.