Questo è un brano del romanzo “Sapere” , di Giancarlo Bufacchi. Il testo è “Proprietà letteraria riservata” dell’Autore. La pubblicazione di parte di esso su questo sito è stata effettuata con il permesso dell’Autore, che ne ha inviato una copia in formato editabile all’amministratore del sito.

 SAPERE

Come  un dolore nella memoria.

Freddo.

Stracciato, cupo, il rimbombo di un tuono , figlio di folgore scesa

 

a marchiare, ad incidere polvere e schegge, graniti, basalto e

fango, penetrata sin nell’imo come rotolando col male al petto sui

binari corrosi della sotterranea, esce rauco dalle cieche bocche

agli angoli delle vie e fa vibrare i vetri.

 

Piove, forse.

Non so come, non so il perché, né mi sforzo di sapere, la casa, la

grande , antica, rocciosa casa è cresciuta.

S’è allungata.

Di colpo , forse, che di nulla m’avvidi.

Oppure…oppure tanto lentamente il casamento intero… certo,

forse ha fatto proliferare le sue cellule.

Lentamente, subdolamente ha superato la prima traversa e poi la

seconda ed ancora la terza.

Sulla   antica piazzetta  ha provato  improvviso rispetto per i

merli del Corridore

Ha quindi disegnato un arco ed è andato oltre . Gentilmente.

                 Piove, forse, al di là dei  vetri.

Il cielo è chiuso.

Il cielo è basso di vapore oscuro.

Marrone.

Non v’è stella né traccia di satellite e nemmen lampeggiare

d’aerei.

E’ basso,di vapore oscuro.

Solo dal basso gialle opache luci.

Non v’è stella alcuna a far rotta ai naviganti. Non v’è luna ad

ingannar gli amanti.

Rido?

                 Loran .

Questa parola vecchia ormai m’entra.  Infallibile Loran. C’è un

infallibile Loran anche per la vita?

Piove…forse ed il tuono alita greve.

Perché? Perché è cresciuto; s’è allungato il casamento?

Perché ha stirato, quanto non so, pietre e travi? Dilatato stanze e

cavi? Torto mura?

E dove va?

 

Caffè.

Non è male il caffè di notte quando piove, forse, e le folgori ci

fanno piccoli.

Ma la Moka s’è storta.

Presa da una infantile imitazione, accortasi forse presto del gioco

a crescere che le è sorto intorno, si deve essere ingegnata.

Si è stirata anch’essa.

Ma le è andata male e , forse a causa d’antica artrosi è rimasta

sbilenca; allungata dalla parte del manico  ma rattrappita verso il

becco.

 

“ Pappagallo!” le dico :” Sembri un pappagallo. Ti metterò sul

trespolo…”

 

Caffè!?

Ma si! Se pur l’insegna del  bar dirimpetto sia spenta, io so ove se

ne trovi.

Ora.

Non ne avevo consapevolezza sino ad un istante fa.

Ora si.

 

Trema il vetro.

Piove?

No.

Le  tre. Infilo le scarpe.

Qualcuno urla nel casamento. Perché urla ? Perché io non  urlo?

Ho forse un Loran?

Esco sul pianerottolo.

Qualcuno…uno? Tanti? O forse  è solo una illusione… forse…

urla nella sua stanza.

Per le scale si sente di più.

Gradini.

Uno, cinque, trentacinque. Non conto i gradini da più di

trent’anni.

Ma quanti sono?

Cento gradini. Cento minuti  cento. Cento gradini… o giorni.

Mille…???

La porta del terrazzo è aperta. Finalmente è successo.

 

Su è strada e gente transita. Gente.

Che ci fa tanta gente sulla strada terrazzo  del casamento che non

si sa dove arrivi?

Importa?

Botteghe.

Chiuse.

Qualche lume troppo lucente. L’insegna del bar, infine.

Mai visto.

Strano… Mi è capitato il bar giornalaio. Mai ancora il bar

cartoleria.

Strano.

Ma lo strano non consiste nell’inusitato connubio tra attività 

commerciali quanto nella straordinaria quantità e altrettanto

straordinaria qualità della merce.

Matite soprattutto e quando dico soprattutto intendo dire

esattamente al di sopra di tutto. Al di sopra del bancone del bar.

Centinaia… centinaia o migliaia di matite di ogni sfumatura di

colore possibile, sogno di un pittore alcolizzato e felice, pendono

dal soffitto di questo locale.

Migliaia sembra una esagerazione… eppure migliaia sono e

lunghe quasi un metro.

Ovvio che al metro di lunghezza corrisponda un diametro

acconcio.

Mi par che sia di almeno sette centimetri buoni.

Foresta rigirata di infiniti colori ondeggianti per la ventata fredda

prodotta dalla improvvisa apertura della porta .

“ Sera.”

“ Sera a lei.”

“ … sidera?”

“ Caffè.”

“ Caffè ?!”

“ Caffè!”

“ Lungo ?”

“ No.”

“ Corretto?”

“ Solo caffè. Caffè in tazzina. Lo zucchero ce lo metto io.”

“  Uhmmm…”

Piattino bianco, candido.

Corre sul piano d’acciaio del bancone. C’è un velo d’acqua.

Corre ma non cadrà in terra. E’ legge…

Scivola  verso il bordo. Ruota appena. Sporge e si blocca.

Ha viso il baratro e salva l’ossa.

Collaborativo lo spingo verso il centro del bancone.

 Il barista ha un occhio che ride. L’altro no.

Cucchiaino. Acciaio. Tintinna secco sulla ceramica. Unghie

sporche del barista.

Penso al caffè.

Tazzina. Apparenza: pulita.

Caffè: nero giusto , bruciato d’odore.

“ Zucchero ?”

“ Fo da me!”

Grumi scuri nella graniglia candida. Li scanso.

Un cucchiaino.

Labbra all’orlo…

“ Aspro! E’ aspro!!.”

“ Caffè semplice.” Il barista non ha più l’occhio che ride.

“Cattivo !”

“ Lo poteva chiedere lungo, stretto, con latte caldo o freddo,

corretto al mistrà ,alla grappa , al cognac… con la panna.”

“ Volevo solo un caffè decente.”

“ Alle tre di notte!??”

La voce è di un tipo grosso. Faccia spiaccicata e radi capelli.

“ Già. Caffè alle tre… di notte.”

Ridacchia e chiede un bicchiere di vino rosso.

“ Qui non sanno fare il caffè. Vino?”

“ No, grazie.”

Lo guardo meglio.

“ Lei è il fratello di Luciano Pieralice?”

“ Non gli somiglio nemmeno un po’.”

“ Lo  vedo.”

“ Allora come cazzo lo sai?”

“ Piega di disgusto perenne all’angolo della bocca. A sinistra.

Identica.”

“ Marchio.”

“ Già: Come sta?”

“ Chi?”

“ Tuo fratello Luciano.”

“ Non ho fratelli.”

“ Come non hai fratelli!?”

Disegna una croce nell’aria.

“ Ma và!”

“ Giovane ancora… troppo.”

“ Sui cinquanta?”

“ E che ti pare…?”

“ Giusto. Giovane.”

Beve il suo vino. Ne sputa un poco sul pavimento.

“ Anche il vino fa schifo alle tre.”

“ Già. Meglio il caffè . Come?”

“Il solito . Al fegato. Brutta storia.”

“ Non sapevo.”

“ Non gliene fotte un cazzo a nessuno.”

Sbatte il bicchiere sul banco e mette duemila lire in mano al

barista.

Esce. Guardando fuori dice :” Non te ne frega un cazzo nemmeno

a te. Vaffanculo…”

Un altro. Non un altro vaffa od un altro caffè. Un altro morto.

Ma ha ragione piega amara ; non me ne può fregare di meno.

“ Lo sa fare un caffè decente?”

“ L’ho già fatto.”

Mille e cinquecento. Mancia compresa.

Me ne vado pensando che un bar così dovrebbe bruciare. Le

Matite tintinnano alle mie spalle.

Piove ma poco. Smette. Forse.

Apro un muro di ombrelli. La gente è tanta. Ma che fa tutta questa

Folla sul terrazza di casa mia?

Cammino. Smette di piovere ed il muro s’abbassa.

Una mignotta negra si mette di culo. Si dà da fare con le natiche.

Mi viene da ridere.

Si gira e rotea la lingua sulle labbra  di neon arancio. In mezzo

alle gambe deve avere un lampeggiatore. Non rido più.

Un vecchio si avvicina. È  basso e magro. Tira fuori il suo arnese

e lo sventola. È  lungo e nodoso come un ramo di quercia.

La mignotta negra ride. Lui ride. La chiama signora porca e le

strizza un seno.

Lei ride.

Vado avanti. Vado? Ma dove? Il terrazzo è lungo trenta metri ma

si è allungato a perdita d’occhio. Perché?

Sarà la notte.

 

Cielo basso. Senza luci all’infuori di quella sangue fresco del

trasmettitore televisivo sul colle.

Ci vorrebbe , forse , del vino. Un litro o due… chissà

Vado.

Ma che vuol dire “ andare “?

Forse meglio tornare. Forse no. Sin dove sarà arrivato il

casamento?

Vado…

La gente è un po’ di meno. La luce mi pare più forte. Non

so se mi piace o mi fa schifo. Dico della gente.

Un ragazzino – che cavolo ci fa un ragazzino in questa ora di

notte?- cammina in fretta. Sulla spalla destra, a mo’ di fucile con

tanto di baionetta  inastata, porta una matita. La punta è rossa.

Chi avrà ucciso nell’ultimo combattimento?

Punta rossa. Punta blu. Matitone rosso e blu.

Corre, corre sul foglio e segna.

Errore blu, errore blu. Terzo errore blu.

Questo è rosso.

Tre rossi eguale uno blu.

Tre segni blu e nove rossi. Voto quattro.

“ Non vuoi capire che la frase deve rispettare le regole!? Il

soggetto!  Il soggettooo!! Ti dimentichi il soggetto.”

“ Quattro ! Quattro meno meno. Chi legge deve avere tutto chiaro.

Quattro meno meno… hai una brutta calligrafia. Luigi si che

scrive bene. Soggetto, verbo, oggetto, complemento oggetto e

tutti gli aggettivi al loro posto!!”

Ma Luigi è Luigi. Farà strada nella vita.

 

Il professore dalla barba viola s’è incassato nella sedia finto Tonet

dietro al catafalco.

Quante volte s’è sognato che la paretaccia di compensato grigio,

zozza d’anni e d’incuria crollasse, svanisse e lasciasse vedere lo

cosce della supplente di scienze… quella dal vestito rosso…

“Tu!”

Tu sono io,

“ Tu, sempre lo stesso!”

Dura a cambiare, grande capo. Io.

“ Stavolta è quattro e mezzo.”

Progresso… dicevo tra me.

“ Non scriverai mai decentemente. Non scriverai mai come LUI.”

LUI; Alessandro. L’Alessandro per antonomasia almeno in

letteratura italiana.

“Tu!”

Sempre io.

“ Sei un incapace. Nemmeno l’elenco telefonico potresti

scrivere.”

Rosso e blu. Blu, blu. Ci vuole del vino.

Bell’idea però. Centomila nomi, trecentomila? E cognomi, vie,

numeri. Ogni nome una storia. Anche ogni numero civico.

Forse che le case non hanno la loro storia?

Ci proverò se ne avrò tempo. Una storia, un nome…Bellino.

 

“Tu!”

Ancora io, Gesù!!

Occhi svuotati sotto occhi di fuoco. “ Manzoni, Leggi il

MANZONI!! Tutti i giorni e a tutte l’ore….leggi il Manzoni…

Tu leggi gli americani. Male.

Manzoni!

 

Voglio che tu faccia il riassunto. Capitolo per capitolo. Tutto ed

entro la fine del mese.

Fatto. Fu fatto. Perfettamente.

Senza costrutto.

 

Piove.

Di nuovo la mignotta negra. O forse è una seconda.

Fa pena e non sono