Questo è un brano del romanzo “L’asino e il piattaro” , di Rosaria Esposito. Il testo è “Proprietà letteraria riservata” dell’Autore. La pubblicazione di parte di esso su questo sito è stata effettuata con il permesso dell’Autore, che ne ha inviato una copia in formato editabile all’amministratore del sito.

 … quand’ero agli inizi della mia carriera, e ciò avvenne circa a metà del tempo impiegato per sceglierne una che esaudisse tutti i miei desideri, non tardai a rendermi conto dell’esistenza di una quantità di ostacoli abominevoli, che facevano di tutto per sbarrarmi la strada. Li avrei evitati volentieri, ignorandoli e lasciandoli al loro destino di guastafeste, ma essi dimostrarono ben presto di avercela con me, in modo addirittura smodato.

 

Me li ritrovavo incessantemente tra i piedi, se andavo a destra svoltavano a destra, se mi spostavo a sinistra sterzavano a sinistra, se proseguivo dritto come uno che sa il fatto suo, mi avanzavano sempre di un passo, e questo era sufficiente a fissare al primo palo, con chiodi rugginosi e gagliardi, i miei propositi. Propositi che non avrebbero fatto del male a una mosca, nemmeno agli ostacoli se questi si fossero spostati di lato al loro passaggio e avessero smesso le ostilità.

Ma non vollero giammai saperne di deporre le armi, ché anzi le tenevano assiduamente affilate e pronte all’uso in ogni evenienza, come uno che ha l’unico scopo, nella vita, di abolire il fattibile dovunque esso sia diretto. Cambiavo tattica in continuazione, ignorandoli, dando loro sfacciatamente le spalle, mutando rotta più spesso delle mutande, facendo le mosse della spocchia e quelle della beffa, abbassandomi persino a fare il loro gioco, sacramentando tutti gli spropositi inventati e architettandone anche di nuovi ma, non ne imbroccavo una!

Essi, invece, non fallivano un colpo, non c’era modo né maniera di fregarli, né di anticiparli, né di sorpassarli, né di sopraffarli o di sgominarli …..insomma, non si poteva batterli. Avrei dato ciò che non avevo per atterrarli una volta per tutte, per sconfiggerli e debellarli. Provai anche con la persuasione, con la cordialità e le buone maniere, ma non feci che accrescere la loro acrimonia.  Costoro trovavano un diletto particolare nel mettermi i bastoni tra le ruote, ormai era chiaro; pareva non avessero altro scopo che quello di allontanare da me la realizzazione dei miei sogni.

Dovevo fare qualcosa, non potevo permettere a dei stupidi ostacoli di sgambettarmi, dovevo predisporre un piano, dovevo impegnare tutte le mie energie, dovevo avere l’ultima parola, dovevo averne ragione, non potevo essere molestata ancora, non potevo essere acciuffata e bloccata sul più bello, non volevo essere una delle loro vittime … semmai il contrario.

Se non puoi saltare il muro, abbattilo!  Questo fu il motto che scelsi tra tutti i motti perché mi servisse da precetto e da esortazione nell’esecuzione del mio nuovo ed infallibile piano. Perché non ci avevo pensato prima? Avrei evitato la quantità sconsiderata di rogne e di avversità con le quali avevo avuto il mio bel daffare, perdendo una uguale sconsiderata quantità di tempo per il raggiungimento dei miei sogni. Perché dovete sapere che i sogni son tutti realizzabili, checché ne dicano gli invidiosi, i lavativi e gli screanzati, i quali dedicano il loro tempo alla malevolenza, al menefreghismo e alla sfacciataggine, e non badano ai loro sogni semplicemente perché ne sono privi.

Sono essi gli ostacoli più irriducibili che possano immaginarsi, non trovando maggior diletto che nell’intralciare, nell’impedire e nell’avversare. Più perniciosi di un articolo di fondo sul giornale che infiamma il vostro abominio, peggio di una cena vegetariana, affliggente più di un idraulico con la fissa della poesia, insomma più molesti della peggior molestia che si possa temere, sono la piaga dell’uomo di buona volontà.

Tuttavia non bisogna disperare, non vi ho già detto che i sogni sono tutti realizzabili? Conoscete, forse, qualcosa di sensato capace di impedire la loro realizzazione? Qualcosa che esuli da tutto quanto concerne la vostra propria volontà, intendo, e che nello stesso tempo abbia una giustificazione logica tale, da rendere perfettamente ragionevole una rappresaglia frenante ai vostri desideri? Ne ho passati in rassegna più di quanti sia lecito a un povero cervello affaticato, e ho imbrattato una risma di carta da entrambi i lati, nel tentativo di compilare un elenco abbastanza esauriente da servire da guida per me e per quei disgraziati che provano a inseguir la fortuna e si ritrovano alle calcagna …. la iella.

Al quattrocentonovantanovesimo foglio, dopo la miseranda fine di tre penne, subissato per tre quarti dalle carte e completamente smarrito tra le dune calve di una demenza esordiente, la mia infaticabile costanza mi premiò, lasciando che trovassi ciò che volevo trovare, scoprendo ai  miei occhi ciò che speravo scoprire, ficcandomi in testa una volta per tutte ciò che volevo sapere : non c’è, su questa terra, nessun ostacolo tanto grande, né così gagliardo, né abbastanza scaltro, che il volere dell’uomo non possa averne ragione. Da ciò procede la regola : l’unico ostacolo davvero insormontabile all’uomo, è l’uomo stesso.

Ora, converrete con me che la proposizione ammette solo due interpretazioni : l’uomo è ostacolo a sé stesso; l’uomo ha come ostacoli gli altri uomini. Nel primo caso sarei costretto a sopprimere me stessa pur di realizzare i miei sogni, nel secondo caso si renderebbe necessaria l’altrui estinzione, sempre per il raggiungimento dei medesimi sogni.

Giuro con tutta la sincerità di cui sono capace quando nessuno mi ascolta, che avrei preferito obnubilare me medesimo piuttosto che mandare a casa del diavolo un’altra anima già persa per i fatti suoi, ma non fui in grado di scoprire il segreto di come i miei sogni si sarebbero fatti realtà, senza di me. Fu solo per questa ragione che passai due giorni e tre notti, forse tre giorni e tre notti, oppure due giorni e due notti, insomma vidi il sole e la luna avvicendarsi varie volte prima che mi fossi pienamente capacitato del tipo di futuro che m’attendeva.

Un futuro da salumiere. Avrei passato la vita ad affettar fettine. Fettine che sarebbero servite a rimpinzare ulteriormente i portatori di ostacoli, i tesorieri di ostilità insensate. Il salumiere, di fatto, era stato l’unico a esprimermi il desiderio di diventare il mio datore di lavoro. Forse perché non ne poteva più di aggiungere cifre al mio conto che diventava sempre più lungo e più rosso.

Fatto sta, che io non volli fare il salumiere. Dunque non ebbi altra scelta che dichiarare la suprema necessità di accompagnare a casa del diavolo tutti gli ostacoli, che tanto aspramente mi molestavano. Uno per uno!

Per cominciare, decisi di fare un elenco di quelli che, con maggior insistenza, molestavano i miei proponimenti, talora scuotendoli dalle fondamenta. Primo fra tutti l’orribile grido del venditore ambulante di piatti che, con disumana puntualità, si levava alto nel silenzio della siesta più dolce e disperdeva, con i suoi stonati accordi, le care visioni del dormiveglia, le uniche che esaudissero i miei desideri.

Dunque, questa specie di piattaro, se così vogliamo dire per intenderci – e solo così possiamo dire poiché era, effettivamente, un piattaro – aveva la pessima e poco fruttuosa, per lui, abitudine di piazzarsi proprio al centro della piccola piazza del piccolo paese dove avevo la ventura di avere la mia piccola dimora. Dimora che – guarda caso – veniva a trovarsi giusto sopra la sua rimbombante scatola cranica - peraltro corta come il suo cervello, ché non si poteva capacitarsi di come potesse produrre un suono tanto fragoroso – e quella del suo stupidissimo asino.

La cosa  andava avanti da un pezzo, poiché in nessun modo si riuscì a convincere il piattaro a rinunciare alla sua impresa né a fargli mutar l’orario delle sue sortite. Rispondeva, placidamente, che il nostro paese era l’ultima tappa del suo giro mattutino d’affari, dopodiché non gli restava altro che tornarsene a casa. Si cercò di convincerlo a cambiare l’ordine di partenza, così per prova, magari venendo più di buon’ora avrebbe venduto qualche pezzo, ma non ci fu verso di capacitarlo a mutare abitudine.

Ormai quasi tutti erano rassegnati al “cruccio delle tre”, come lo si chiamava tra noi, per intenderci, e tutti sembravano accettarlo come castigo di Dio per qualche dimenticato peccato. C’era addirittura qualcuno che s’era talmente assuefatto alla circostanza, da non ritenersi capace di riposare adeguatamente in caso di sua assenza.

Purtroppo, per il piattaro, io non ero tra quelli. Io, non riposavo per oziare, né per dormire … riposavo per pensare. Questi miei pensieri si risolvevano, per lo più, in rimuginazioni e scervellamenti, essendo essi capaci solo di aggravare le mie afflizioni; tuttavia non posso negare che, talvolta, ne sortiva come per incanto e senza premeditazione alcuna, qualche idea invero brillante e proficua.  Idea che, per venire alla luce, aveva bisogno di pace, silenzio e distensione pressoché totali, in cui il pensiero si sciogliesse da ogni suo legame e vagasse libero e incontrollato per ogni dove. E’ davvero incredibile la quantità di buone trovate cui si può pervenire con due buone ore di sano ozio, è quindi facile capire l’importanza che aveva per me una siesta serena e appartata. Ne andava della mia sopravvivenza, ( all’epoca cercavo di farmi strada come scrittore di novelle umoristiche, e i miei pezzi migliori – gli unici che mi avevano fruttato qualche soldo – li avevo tirati fuori proprio da una bella pennichella). E fu così che dopo il fallimento di qualsivoglia tentativo per far sloggiare il piattaro, mi vidi costretto ad usare maniere più persuasive.

Tuttavia, quel buon uomo non aveva altri torti se non quello di un corto, cortissimo comprendonio; non volli, perciò, fargli altro male se non convincerlo a lasciare l’orario vacante. D’accordo con quei pochi compaesani che, come me, dichiararono di non poter più reggere al suo formidabile grido, si scommise una buona bevuta da offrire a colui che avrebbe scovato l’argomento più efficace a che lui se ne andasse a gambe levate da lì!

E chi provò a spaventarlo, chi a giocargli un qualche brutto tiro- non ben identificato – chi, addirittura, si provò a minacciarlo. Ma non furono rilevati effetti di sorta. Alla fine io, che in tutto il tempo che loro si prodigavano in trovate, me n’ero stato a pensare, feci la mia sortita e dissi : - scommettiamo che gli scasso tutti i piatti senza toccarlo e senza toccare il ciuccio?- mi guardarono senza fiatare, ritenendo la mia trovata priva di probabilità di riuscita, niente più che uno scherzo da poeta.

La cosa ringalluzzì il mio orgoglio – poiché ero certo della riuscita – tanto che decisi di prendermela comoda e dissi, aggiustandomi addosso ciò che avevo indosso e che non ricordo, che l’indomani ne avrei data esauriente dimostrazione.

Ora, il mio sistema era infallibile, a patto d’aver buona mira, e io l’avevo (ai Luna Park vincevo un sacco di pupazzetti, che facevano l’invidia di tutti i bazzica tori di Luna Park). Il procedimento era semplice, semplice ma infallibile, come ho detto.  Tutto si basava sulla sorpresa e sulla assoluta segretezza delle manovre. Il piano era questo : quando l’indomani il piattaro sarebbe venuto a prender possesso delle anime in placido abbandono, per scombussolarle, lo avrei lasciato fare come al solito, per un po’, limitandomi a sacramentare col pensiero poi, quando la sua stupida faccia avrebbe assunto i colori della vittoria e magari qualche anima particolarmente pia o sorda, ché entrambe le categorie vantano la presenza di almeno un esemplare in qualsivoglia città o paesucolo, gli avrebbe acquistato un piatto, allora sarei entrato in scena io tranquillo e sicuro, come si conviene, appunto, a chi è convinto e sicuro. Sarei uscito dal piccolo portone marrone scuro chiazzato di beige, non per ragioni mimetiche né per altro, ma semplicemente per infingardaggine restauratoria, col soprabito in spalla come per far quattro passi. Con somma indifferenza e passo calmo mi sarei incamminato per i fatti miei, poi, ad un certo punto, come incuriosito, mi sarei diretto verso il castigatore dei miei sogni e mi sarei fermato.

E’ da tener presente che, durante lo svolgersi di queste mosse, mi sarò acceso una sigaretta dalla quale avrò aspirato gustose boccate, diciamo fino alla metà, cosicché come ultimo atto e poco prima di dare avvio alla scena madre, essa non sarebbe stata più una sigaretta ma non ancora una cicca, non so se rendo l’idea. Di tutte quante le manovre, quest’ultima era quella decisiva. Un piccolo errore, una trascuratezza, per quanto infinitesimale si possa pensare, avrebbe mandato a monte l’intero piano. Vale a dire, la riuscita dell’operazione era direttamente proporzionale alla differenza tra la quantità di sigaretta fumata e quella ancora da fumarsi. Una cicca troppo lunga avrebbe sicuramente fallito lo scopo, assumendo piuttosto le sembianze poco costumate di una malacreanza. Una cicca troppo corta, pur raggiungendo lo scopo, non avrebbe dato luogo al risultato previsto, e sperato.  In entrambi i casi non sarebbe stato possibile prevedere a che tipologia di rappresaglia avrebbero affidato, il piattaro e il suo ciuccio, la risposta all’oltraggio. Ma, qualunque essa fosse stata, sarebbe stato molto più prudente tenersene alla larga! Per questo, e per tante altre morigerate ragioni, si rendeva necessario porre la massima attenzione, senza ovviamente dare nell’occhio.

Ora, per tutti coloro cui sembra quantomeno improbabile, se non inverosimile, il fatto che con un armamentario fatto di nulla fosse ipotizzabile la sortita  perenne di un molestissimo, seppur innocente piattaro, ne descriverò concisamente il processo, cercando di essere chiaro, per quanto me lo consentano le mie povere forze. Dunque, dopo la perfetta esecuzione delle mosse preliminari, cui ho già accennato, e che vede l’azione decisiva affidata quasi per intero alla mezza cicca, la vittoria sarebbe venuta a cadere tutta nelle mie mani. Anzi, nella mia mano destra, la quale aveva il compito di tirare la suddetta, ancora accesa, nell’orecchio del ciuco.

A questo punto l’animale, imbestialito dall’inopinato e immeritato bruciore alle sue trombe d’Eustachio – ché la povera bestia è solo una vittima della bestialità spirituale del suo padrone – si sarebbe data a scalciare come un somaro cui è stata seriamente attentata la pace, e allora non si può dire l’effetto che ciò avrebbe avuto sull’armamentario compitamente impilato sul suo groppone. O meglio, si sa. Piatti, piattini, coppe fruttiere, con un baccano del diavolo sarebbero andati in frantumi. Questo era proprio quel che ci voleva per togliersi di torno il dannato piattaro e i suoi urli. Una volta per tutte!

L’indomani piovve, e il piattaro non venne.